Una socia sinologa, che per comprensibili ragioni ha chiesto di mantenere l’anonimato, ci ha inviato questo interessante resoconto del viaggio recentemente compiuto nella regione del Kham, nel Tibet orientale. Questa la sua significativa testimonianza:
“Providing support for the roof of the world”
Il China Daily del 30 luglio 2014 pubblica un articolo circa i finanziamenti stanziati dal governo di Pechino e del Jiangsu a favore di Lhasa. Si parla della crescita economica della regione autonoma degli ultimi 20anni e di quella futura con i 215 milioni di yuan investiti per le necessità primarie e indumenti per la popolazione, 1 miliardo di yuan in parchi di divertimento per bambini, centri culturali e sportivi , i 600 milioni del 2013 per la costruzione di 10 scuole nei pressi di Lhasa e i 413 milioni per l’invio di medici professionisti e ufficiali nel Paese delle Nevi. Il 13 agosto 2014 sempre sul China Daily il corrispondente di Pechino a Lhasa, Li Yang, scrive riguardo al forum internazionale tenutosi a Lhasa sul tema sullo sviluppo sostenibile in Tibet annunciando che la Cina dà il benvenuto ai suggerimenti costruttivi da parte della comunità internazionale. Losang Jamcan , presidente del governo autonomo regionale che afferma “ Il Tibet non copierà mai il modello di sviluppo che prima inquina e in seguito ripulisce” riceve una lettera di congratulazioni da parte di Yu Zhengsheng, vertice del Comitato Nazionale , in cui sostiene che il Tibet non ha altra scelta se non quella di perseguire uno sviluppo eco-sostenibile.
La prima cosa che mi viene in mente è il Piano di Pace in Cinque Punti del Dalai Lama che già nel 1987 prevedeva fra le trattative anche il ripristino e la protezione dell’ambiente naturale. Subito dopo penso al capolavoro ingegneristico del “Treno dei Cieli” che sta distruggendo l’intero ecosistema dei 1147 km da Pechino attraverso il Gansu e il Qinghai fino a Lhasa.
Il 23 settembre 2014 il sito di La Repubblica annuncia quanto segue: “La Cina cavalca il business della tortura: boom di aziende specializzate in strumenti del dolore . La denuncia di Amnesty International: in dieci anni i produttori sono passati da 28 a 130, anche se non ci sono cifre precise del giro d’affari. Alcune sono partecipate direttamente da Pechino, accusata di non porsi alcun limite etico. Nei cataloghi anche il bastone elettrico denunciato dai tibetani.”
Il mio viaggio nei territori del Kham comincia a Chengdu, la capitale del Sichuan .
Dopo una passeggiata tra annunci matrimoniali e spettacoli folkloristici nel Parco Renmin, vedo nel casotto delle guardie all’entrata una serie di oggetti appesi alle pareti, tra i quali un manganello elettrico. Non l’avevo mai visto prima. Uno strumento ora molto comune e sempre pronto all’uso.
Nonostante la partenza di buonora da Chengdu, il primo imprevisto non tarda a presentarsi e rimaniamo bloccati per 5 ore in un tunnel di oltre 4 km tra Yan’an e Luding a causa dell’intenso traffico e dei perspicaci autisti cinesi che si ostinano a sorpassare in una strada a soli due sensi di marcia creando un ingorgo disumano.
Arriviamo a mezzanotte a Dartsedo , Kangding , che sorge ad una quota di 2600 m sulla confluenza dei fiumi Dar e Tse ed è la porta d’accesso al Kham. Oggi una grande città cinese che costituisce ancora un centro di commercio fra cinesi e tibetani come al tempo della storica via del tè e dei cavalli in cui scambiavano lana , erbe medicinali e soprattutto blocchi di tè avvolti in pelli di yak. Oggi si vedono lavori di costruzione lungo le due strade principali Yanghe dong lu e Yanghe Xilu di conseguenza interrotte a causa degli innumerevoli escavatori ed enormi track presenti a qualunque ora della notte e del giorno.
Siamo costretti a numerose deviazioni tra le quali un vicolo stretto e buio dove alcuni uomini Khampa, i nativi del Kham, e donne Qiang, discutono e preparano gerle colme di funghi porcini. I nostri autisti sono Han, chiediamo informazioni su come raggiungere la nostra destinazione. Ridendo, i più giovani ci fanno cenno di proseguire. Hanno occhi grandi e profondi, carnagione della terra e capelli crespi, parlano cinese. Indossano scarpe consumate di pelle nera, moderni jeans e una giacca tradizionale dai bordi decorati. Procediamo lungo il vicolo che si stringe sempre di più fino al totale blocco da parte di un escavatore che sposta grossi massi di pietra. Dobbiamo retrocedere e a loro volta tutti gli altri veicoli dietro di noi. Ripassiamo davanti al gruppetto, ci fissano e riprendono i loro traffici. L’autista è innervosito “Si trovano a soli 20 metri dalla strada interrotta, potevano avvertirci, no?”
Mi venne da ridere.
Il mattino successivo realizzo immediatamente il drastico cambiamento del piano urbanistico ed edilizio della città. Grattacieli grigi molto recenti continuano a crescere con aspetto già decrepito ancora prima di esser terminati. Kangding è diventata una cittadina di cattivo gusto con presenza predominante Han . Cominciamo a salire lungo la Sichuan Tibetan Highway verso Garze via Tagong e Bamei. Appena fuori Kangding lungo la salita che conduce al passo in corrispondenza alla montagna Zheduo, un’enorme costruzione si erge sopra gli alberi, bianca con le finestre dalle cornici decorate in giallo, blu, arancio e verde e i caratteristici cilindri rituali di rame sui tetti.
“New building. Chinese government provides financial and cultural support for local administration by building roads, houses, schools, temples, monasteries for Tibetans.”
Mi viene detto. Ancora.
La strada si inerpica sempre più tortuosa sui tornanti della montagna. Tra i prati luminosi del fondo valle, intravediamo puntini neri: sono yak , si muovono lentamente tra le tende sul bordo del fiume Yalong che riflette i colori del cielo e delle nuvole. I nomadi sono raggruppati in talune zone delimitate nonostante la vastità del territorio. La prima cittadina scendendo dal passo tra le praterie è Xinduqiao. Fino a 4 anni fa era poco più di villaggio. Ora ci sono un nuovo centro abitato costruito quasi interamente sulla strada principale e un nuovo monastero sulla montagna di fronte, il cui ingresso è vietato ai turisti. La strada è affollata da Khampa , Qiang, pochi monaci e un cospicuo numero di militari cinesi. L’autista vuole attraversare velocemente la cittadina. Gli chiedo di fare una breve sosta. “Meglio proseguire, abbiamo molti km da fare. Ci fermeremo a Tagong”. Comprendo che il problema non sono certamente i kilometri.
Superiamo le abitazioni e le botteghe che vendono oggetti rituali di prima necessità per lo più utilizzati dai monaci. Ci sono materassini quadrati nei vari colori e decori impilati l’uno sopra l’altro, grandi anfore di latta, borse di stoffa color porpora mescolati a bacinelle di plastica, grappa, sigarette, cestini….
Ed ecco nuove costruzioni caratterizzate da un solo piano terra questa volta, ma estese a perdita d’occhio. Recinti di filo spinato, muri, camion, alloggi, mense, uffici governativi, caserme. Insomma una vera e propria base militare. La strada deve essere ultimata, ancora per pochissimo in certi tratti si passa a senso alternato. Le donne, con cappelli ornati di fiori artificiali, regolano il traffico, ovviamente sotto la supervisione delle guardie. Attendo un commento dai compagni cinesi circa il ricorrente tema del supporto governativo. Non dicono una parola.
Raggiungiamo Tagong nel primo pomeriggio. Anche qui ritroviamo le stesse etnie : Khampa e Qiang. La popolazione khampa è composta da 14 gruppi etnici, alcuni dei quali hanno acquisito la cultura tibetana ma gli altri hanno culture e lingue diverse. Nessuna di queste tribù è contemplata fra i 56 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dalla Cina, e malgrado la loro diversità sono stati inclusi tutti nel gruppo etnico tibetano. Il Qiang sono invece ufficialmente riconosciuti come una minoranza etnica che conta circa 200 mila persone originarie dell’altopiano tibetano del Qinghai. Mentre i fieri uomini Khampa portano un cappello stile far west, le donne Qiang indossano il caratteristico copricapo dalla base nera con ricami variopinti, pietre di corallo e turchese incastonate in una treccia di lana che gira sulla sommità del capo accanto a una matassa di fili sempre di lana blu . Il villaggio è diviso in due dalla strada principale. A lato di entrambi i marciapiedi, completamente dissestati , vi è una profonda buca che scorre dall’inizio alla fine delle abitazioni. Lavori in corso. Visitiamo il Gompa Di Tagong risalente all’epoca della dinastia Qing . Il monastero è caratterizzato da due stili architettonici mescolati, tibetano e cinese.
Un monaco, dalla cima del tetto del tempio centrale, esattamente sotto la ruota del Dharma, sta suonando la conchiglia rituale. Improvvisamente sbucano da ogni lato del cortile interno monaci che si affrettano ad occupare il proprio posto nel salone centrale. Siedono tutti a gambe incrociate dietro i banchi disposti in file perpendicolari alle statue di Buddha al centro. Il più piccolo avrà 6 anni, il più anziano si avvicina ai 70. Recitano i sutra e dopo aver lanciato una manciata di riso cominciano il proprio pasto frugale. Tre giovani passano con una brocca di rame e pietre preziose e un grande contenitore con coperchio dispensando tè al burro di yak e tsampa. Concludiamo la visita con un kora[1] in senso orario intorno all’edificio e ammiriamo la splendida collezione di chorten[2] sul retro.
Proseguiamo lungo la Sichuan Tibetan highway. Siamo diretti a Tawu. Ero passata di qui anche quattro anni fa e non mi fu permesso di visitare il Gompa di Nyatso a causa dei restauri. Oggi accade la stessa cosa: “non si può accedere al monastero a causa di un incendio successo pochi giorni fa”. Ma che tipo di incendio?
Il 15 aprile 2014 il sito The Tibet Post riferisce che sale a 131 il numero dei tibetani immolatisi con il fuoco in Tibet dal 2009 in segno di protesta contro il regime oppressivo del governo cinese. A trentadue anni, Trinley Namgyal, si è autoimmolato a Khangsar, una cittadina della Contea di Tawu, nelle vicinanze dell’ufficio governativo cinese. Il suo corpo carbonizzato è stato portato dai residenti nel vicino monastero di Gongthal. E’ stato quindi consegnato ai suoi famigliari.
L’11 giugno 2013 si era immolata a Tawu una monaca tibetana, deceduta tre giorni dopo all’ospedale di Darstedo dove era stata ricoverata. Si chiamava Wangchen Dolma e aveva 31 anni. Si era data fuoco all’esterno del monastero di Nyatso dove erano convenuti oltre 3000 monaci per un’importante sessione generale di dibattito vietata l’anno precedente dalle autorità cinesi. Da allora tutta l’area era stata oggetto di misure repressive, restrizioni e controlli. (dal sito www.italiatibet.org)
La gente qui cammina in fretta a testa bassa oppure con sguardo fisso nel vuoto, evitano qualunque tipo di contatto, anche semplicemente visivo. I cinesi che viaggiano con me non hanno alcuna intenzione di fermarsi a Tawu. Chiedo di vedere il grande chorten sulla strada e fanno finta di non sentire. Mi arrabbio. “Ferma la macchina! Abbiamo concordato la visita del monastero di Tawu. Ora dite che il monastero ha subito un incendio, almeno fatemi fermare al villaggio!” Mi vengono concessi pochi minuti poco fuori dal centro. Nel cortile di una scuola femminile di periferia alcune ragazze danzano in cerchio. Non posso vedere altro.
In tarda serata arriviamo a Luhuo. Ceniamo in un semplice ristorantino con soli due tavoli. Un bambino vestito di stracci mi tiene stretto il braccio tutta la sera. “Sono orfano, ho molta fame”. Gli offro un pezzo di parmigiano che avevo portato con me per i momenti duri. Nonostante la fame e lo stomaco abituato a burro e formaggi di yak, il ragazzino assaggia il parmigiano e lo sputa. “Dammi soldi” dice.
Partiamo alla volta di Pelyul alle 4 del mattino. Attraversiamo il passo Trola di 5050 m . Scendendo incontriamo vaste praterie d’alta quota. In una di queste vi è un accampamento di nomadi riuniti in occasione di una corsa di cavalli. Chiedo a un monaco in arrivo in moto se possiamo entrare. Lui sorride e acconsente. Una donna seduta a terra accanto al marito sta allattando. Accanto a loro un monaco dal berretto giallo e un uomo col cappotto tradizionale, smontano la tenda. I nomadi sono vestiti a festa per l’occasione, indossano vistosi anelli d’oro con corallo e turchese, sorridono mettendo in bella mostra i denti d’oro. Un gruppo di soli uomini si è radunato al centro del campo, stanno discutendo. Sono tutti curiosi nei nostri confronti e senza paura si avvicinano e ci fotografano con i cellulari. Ridono, scherzano, ci prendono in giro e tirano sconvolti i lunghi peli neri degli uomini occidentali. Ci avvertono che poco più avanti la strada è bloccata per lavori. Dopo una ventina di km posto di blocco: due poliziotti dotati di mitra e giubbino antiproiettile sotto l’ombrellone davanti a un banchetto pieno di scartoffie e una reflex ultimo grido Nikon. Compiliamo i vari documenti richiesti, ci mettono in posa ciascuno rispettivamente davanti alla propria jeep e ci scattano 4 meravigliose foto di gruppo sulla strada nel bel mezzo delle praterie a 4200 m di quota. Proseguiamo e ben presto ci infiliamo in coda, fermi per ben 5 ore. Ed ecco una nuova attesa, un’occasione per una sosta tuttavia molto speciale. Questa volta non siamo imbottigliati nel traffico furioso all’interno di una galleria buia e inquinata. Siamo circondati da persone in abito tradizionale tibetano, monaci delle varie tradizioni Gelugpa, Nyingmapa, Kadampa, lavoratori, qualche cavaliere e ovviamente le forze dell’ordine. Forse anche questi viaggiatori sono qui per andare al festival di Kathok. Nessuno si attacca arrogantemente al clacson, ma rassegnato aspetta, sgranocchia qualche pezzo di formaggio, chiacchiera, si siede nell’erba, legge i sutra, sgrana il rosario, si rinfresca nel torrente, osserva.
A Pelyul c’è stata l’incoronazione del nuovo Rinpoche . Le foto del bambino illuminato sono dappertutto, nelle botteghe, in mano alla gente, sulle auto, sui camion . Chissà se il processo di identificazione dei tulku [3] è avvenuto secondo la tradizione tibetana o secondo quella cinese…
A circa 60 km, sulla montagna alle spalle di Pelyul, Kathok con i suoi 4200 m di altezza non è più la minuscola oasi buddhista di pochi anni prima. Le piccole case rosse in legno sono affiancate da abitazioni in cemento, ci sono due nuovi monasteri e uno sta per essere terminato. Quest’ultimo costituisce lo splendido scenario sulla montagna di fronte a noi. Per il momento è grigio. Grigio Cina. Quel grigio con cui gli edifici nascono e poi a breve muoiono, fin dall’inizio destinati alla distruzione. Ma chi sono i futuri monaci a risedere a Kathok? Da dove vengono?
Nel centro del tempio principale del nuovo monastero, il cui cortile oggi vede le danze di apertura del festival, si trova un Avalokitesvara ingioiellato alto almeno una decina di metri.
Un paio di metri più in basso, uno Shakyamuni dai riccioli blu ed un simpatico Guru Rimpoche baffuto gli fanno compagnia, rispettivamente alla sua sinistra ed alla sua destra. Il sottile metallo di cui son fatti luccica fin troppo, abbaglia. Ma non importa, la gente continua a pregare e a prostrarsi finché le forze glielo permettono. I Khampa sono vestiti a festa. Sono seri e attenti, non perdono un istante delle danze di Guru Rimpoche nelle varie manifestazioni che lotta contro i demoni. Ridono agli scherzi dell’immancabile Atsara[4], il buffone che vaga nel cortile e si distingue per la veste leopardata e la maschera sbiancata con lunghe sopracciglia e barba bianche. Le famiglie hanno con sé l’indispensabile per tutta la durata delle varie performance dei monaci. Nonostante la pioggia, non si muovono se non durante le pause ufficiali. Il Buddha Vivente di Pelyul, è qui . Durante la pausa pranzo all’unico ostello gestito dai monaci, l’illuminato riceve e si fa fotografare con i fedeli. Ci sono anche dei cinesi Han dello Hunan, che sgranano il rosario, girano le ruote di preghiera e recitano Om mani padme hum. [5] Sono emozionati in coda alla porta della stanza del Buddha Vivente. Davanti a lui il tavolino è ricoperto di renminbi[6] lasciati in offerta, sorride. Parla solo in cinese. Dona un minuscolo sacchettino con semi e benedice rosari e sciarpe. Che foto: il Buddha Vivente sorride affianco al cinese in posa che alza la mano con le due dita in segno di vittoria (….o di pace?). Sconcertante.
Al richiamo dei tamburi torno al cortile del tempio. La gente prende velocemente posizione. I monaci si ricompongono dopo pranzo prima di ricominciare. Alcuni faticano a staccarsi dal telefono. Mi avvicino a uno di loro, è in piedi in un angolo e smanetta velocemente il suo i-phone 5. Non ci posso credere. Guardandomi intorno mi rendo conto che non è l’unico.
“Ma di chi è quel telefono? ”
Risponde sorridendo: “Mio”!
“Com’è possibile?”
“Me l’hanno regalato i miei genitori quando sono venuti a trovarmi”
“Vivi qui a Kathok?”
“Sì certo, al monastero, vuoi vedere ? Ho anche un’i-pad ”
Vado. Si siede a gambe incrociate per terra tra il letto e un piccolo banchetto su cui tiene orgoglioso il prezioso i-pad. Sulla parete 3 foto: Panchem Lama, Dalai Lama, Karmapa.
È possibile tenere l’immagine di S.S. il Dalai Lama?
Il giovane monaco ventenne è più interessato a parlare di tecnologia che non di religione. Arriva qualcuno. Ringrazio e me ne vado.
Cosa sta succedendo al centro religioso di Kathok , uno dei più importanti monasteri del lignaggio Nyingma?
Nel 1951 il monastero di Kathok contava circa 800 monaci. Distrutto durante la rivoluzione culturale, venne restaurato negli anni ’80. Il 4 Maggio 2013 rimase gravemente danneggiato per un incendio. Le cause rimangono tutt’oggi sconosciute. “Le finanze per i lavori di ristrutturazione dei monasteri sono merito di generose donazioni di discepoli cinesi di lama di Kathok” Questa l’informazione che trovai prima di partire.
Derge è irriconoscibile. Rimane solo la stamperia, il Parkhang , a tre piani, costruito nel 1729, dove Kangyur, una collezione di scritti buddhisti, e Tengyur, una collezione di commenti, sono ancora stampati da blocchi di legno. In uno scenario terribilmente cinese la deambulazione dei fedeli intorno all’edificio sacro è commovente.
A Garze , la sera mi stacco finalmente dai cinesi e faccio una passeggiata tra le botteghe del centro. Una tra queste che vende vari gadget religiosi attira la mia attenzione. Sul retro, piuttosto nascosta, scorgo una piccola foto del Dalai Lama.
“Non è rischiosa quell’immagine?” chiedo al gentile proprietario.
“Se è piccola non si nota”
Ci guardiamo negli occhi a lungo. Sorride, ma è triste.
“Com’è la situazione qui a Garze, come sono i rapporti con i cinesi?”
Lui si tappa la bocca facendomi capire che non può parlare. Mi chiede cosa faccio lì e da dove vengo. Non appena gli dico la mia nazionalità si illumina e mi mostra le foto di suo figlio fidanzato con una ragazza italiana. Si sono conosciuti a Dharamsala dove ora convivono. Periodicamente la giovane coppia torna in Italia, dove insieme stanno ristrutturando un vecchio rustico nella campagna toscana. Gli racconto della mia ultima visita a Dharamsala e di avere assistito al rituale del Dalai Lama a Livorno. Il bel signore tibetano ha occhi lucidi e mi fa un cenno di approvazione alzando il pollice. Non parla bene cinese, quindi chiama sua moglie che invece non ha alcun problema di comunicazione e una gran voglia di far sapere al mondo come vivono qui i Tibetani.
“Nel 2005 accompagnai i miei figli a Dharamsala, è stato un viaggio molto duro, allora eravamo ancora in possesso dei passaporti. Tenzin è rimasto lì, educato al Tibetan children village dove ha conosciuto la ragazza italiana. Tashi vive ora negli Stati Uniti. Sono tornata a Dharamsala nel 2007 dopo di che non li ho mai più rivisti. Qui non c’è alcun futuro per i nostri figli, e se potessimo anche noi ce ne andremmo. Il problema è che ci hanno tolto il passaporto. Nessun tibetano nella prefettura autonoma di Garze ha il passaporto. Non solo non possiamo viaggiare all’estero ma nemmeno al di fuori della contea e chi vive oltre il confine non può rientrare. Qui non esiste libertà. I poliziotti sono ovunque, molti sono in borghese. Sanno bene quando arrivano quei pochi turisti che ancora mi stupisco di vedere e in quel momento tutto appare tranquillo. Altrimenti girano con i mitra e sappiamo che non hanno alcun problema a sparare. La pressione è fortissima. Viviamo in uno stato di paura e violenza costante. Molti di noi sono spariti, alcuni in prigione, altri sono morti, qualcuno si è dato fuoco per protesta qui, a Sertar e Larung gar. Veniamo perquisiti ogni giorno e ogni giorno i poliziotti lanciano per aria le nostre borse sequestrando ciò che gli pare. Tutti i monasteri sono pieni di cinesi vestiti da monaci. Ci tengono in pugno ma noi chiediamo solo di vivere in pace, non siamo aggressivi. Le immagini di S.S. il Dalai Lama di certo non sono ammesse , noi la nascondiamo non appena si avvicina qualcuno di sospetto. Sappiamo che all’estero in molti lottano per il nostro popolo. Ne siamo felici e non perdiamo la speranza.”
A quel punto il marito afferra il gomito della moglie , vede qualcuno là fuori che sta salendo i gradoni per entrare in bottega. Faccia da tibetano, ma chissà….forse anche lui un poliziotto in borghese…..Fingo di non capire , accarezzo le sciarpe e i tappeti . La coppia sorride e accoglie il nuovo arrivato.
“Thank you and Tashi Delek[7]”
Cammino con un gran nodo alla gola e un masso nello stomaco. Torno all’ostello, rimango seduta sulle scale fuori. Ho paura che succeda loro qualcosa. Torno a guardare da lontano il negozio. Chiuso. Non riesco ad andare subito in camera. Ho miliardi di pensieri che avrei bisogno di condividere. Ma con chi? Mi sento sola e impotente. Paura per loro, paura per me, paura per la gente che viaggia con me. Mi viene in mente di tutto. La volta che appena atterrata a Pechino mi trattennero per ore in una stanza all’aeroporto senza dire una parola. Penso a Tiziano Terzani e a quando nel 1984 venne fermato all’aeroporto di Pechino dove i poliziotti di Pubblica sicurezza gli sequestrarono il passaporto imponendogli di scrivere “un’autocritica” per confessare i suoi crimini. Scomparse con i “sottili psicologi”, come li chiama lo scrittore, per tre settimane per poi essere espulso dalla Cina. Salgo in camera. Annoto velocemente e malamente ciò che ho appena sentito. Metto una pesante poltrona davanti alla porta e blocco le finestre. Appena il cielo schiarisce corro a vedere il negozio. È aperto, la coppia c’è. Ci sono anch’ io. Il viaggio continua e come da programma visitiamo il monastero di Garze. È chiuso. Camminiamo nel cortile esterno, fino in cima alle chokhor, [8] le ruote di preghiera. Al ritorno dal sentiero si avvicina un monaco e mi dice che gli altri sono andati in città ma lui ha le chiavi e ci potrebbe mostrare il tempio centrale. I mille Buddha e Guru Rimpoche sono diventati i protagonisti di un festino kitsch cinese decorati con delle luci artificiali lampeggianti. Al centro del tempio, sul trono dei Lama, ancora una foto del XIV Dalai Lama. Anche qui non posso fare a meno di chiedere se si possa o no tenere l’immagine in bell’esposizione.
Subito mi risponde
“Sì, sì, nessun problema”
Poi non ce la fa. “Nascondiamo le immagini quando sappiamo che il governatore della prefettura è in arrivo. Sai, a lui non piace questa foto. Spero sempre che non venga! La situazione qui non è semplice. Quando ci furono le proteste, nel 2008, i poliziotti sparavano a raffica con i mitra, catturarono moltissimi tibetani, alcuni furono fatti prigionieri e sono ancora dentro. Se potessi andrei a Dharamsala , come i miei nipoti che da quando si sono diplomati laggiù non sono più tornati in Tibet. Io non posso muovermi, non ho il passaporto. Il rilascio del documento avviene soltanto attraverso un lama in accordo con il governatore della prefettura, un cinese. Questo non è un luogo tranquillo, ma pieno di pressione. Non ho paura di parlare, tanto non ho nulla da perdere.”
Proseguiamo attraverso le dolci praterie assolate dell’altopiano fino a risalire i 4600m del passo davanti ad una catena di montagne innevate che ci manda incontro un temporale dai colori quasi infernali come a voler ricordare la potenza della distruzione a noi, spettatori di un immenso teatro di sterminio.
Una giornata intera su una strada ricca di un tanto splendido panorama quanto di buche simili a voragini, e arriviamo affannosamente a Sertar, una cittadina dove si può leggere la tensione nell’unica strada asfaltata densa dei soliti edifici grigi e delle persone grigie. Siamo qui per vedere a Larung Gar la più grande università buddhista del mondo, distante circa una trentina di km da Sertar. Non posso credere ai miei occhi. Sembrano scatole magiche color porpora impilate sulla montagna… ma sono le abitazioni di circa 40.000 monaci buddhisti: gli abitanti dell’inconsueta e particolare città-studi di Larung Gar, sorta intorno ad un monastero tibetano, quasi inaccessibile tra le montagne. L’Accademia è stata fondata nel 1980, in una valle completamente disabitata, da Khenpo Jigme Phuntsok, un influente lama della tradizione Nyingma. Nonostante la sua posizione remota, Larung Gar è cresciuta partendo da una manciata di discepoli, diventando, secondo un’edizione del New York Times del 1999, uno dei centri più grandi e più influenti per lo studio del buddhismo tibetano in tutto il mondo. Uno degli elementi più sorprendenti è che più della metà degli studenti sono donne. La loro ammissione nei pochi conventi che esistono in altre zone del Tibet è limitata, mentre a Larung Gar è aperta virtualmente a chiunque voglia diventare un allievo della visione ecumenica di Khenpo Jigme Phuntsok. Un’altra sorpresa è che l’Accademia attrae anche studenti cinesi, nonché studenti provenienti da Taiwan, Hong Kong, Singapore e Malesia, che frequentano le classi separate tenute in cinese mandarino, mentre le classi più grandi sono in tibetano. Ma come è possibile che esista qui, nel cuore del terrore di questi 4000m, un luogo dalla fama tanto pacifica che abbia lo scopo di unire tutti i buddhisti in armonia e di propagare il Dharma affinché ne beneficino tutti gli esseri? Prima di partire lessi su wikipedia che nel 2001 alcune delle case vennero demolite e centinaia di monaci e monache espulsi. Nel febbraio 2012 tre pastori si immolarono per protesta e ancora il 26 novembre un monaco si diede fuoco di fronte al cavallo dorato di Larung Gar. Perché questi atti estremi in un luogo così pacifico? In effetti la città studi appare idilliaca. Ogni giorno alle 13.30 è possibile assistere alla tradizionale sepoltura a cielo aperto sulla cima della montagna a 1 km a nord della cittadina, come se fosse un’attrazione turistica con i cinesi che si fanno fotografare con le solite due dita alzate davanti agli avvoltoi. Ogni sera alle 18 i monaci dibattono animatamente presso la scuola maschile. Ogni notte una ventina di cinesi posizionano i loro kilometrici obiettivi sul cavalletto in un punto panoramico in mezzo alle bandierine di preghiera per cogliere la luce perfetta di “Larung Gar by night”. In una bottega di tappeti due negozianti Khampa, quando mi sentono parlare cinese, mi chiedono da dove vengo, dove ho studiato, quanti anni ho, se sono sposata. Sembrano contenti di chiacchierare, così a mia volta domando come stanno e come vivono. Si guardano attorno prima di dire semplicemente: “Qui i cinesi non sono buoni, sono cattivi”.
La colonizzazione Han nelle regioni tibetane avviene non soltanto tramite gli inesorabili lavori in corso ma si tratta soprattutto di una subdola infiltrazione che passa attraverso la religione. Gli scritti sacri vengono rigorosamente tradotti in mandarino. A quanto pare più del 40% dei monaci di Larung Gar è di origine Han. Per loro è molto semplice ottenere il permesso dal governo per costruire le scatole magiche color porpora. Per i tibetani è pressoché impossibile a Larung Gar, come a Kathok e come in tutte le cittadine degli istituti lamaisti del Tibet.
Siamo di fronte ad una forma dolce e pressappoco invisibile di pulizia etnica che lascia delle cicatrici indelebili sulle montagne tibetane.
IMMAGINI
[1] Kora secondo la tradizione buddhista tibetana, è un tipo di pellegrinaggio o di meditazione. Generalmente si chiama kora la circumambulazione attorno a un tempio, un chorten o un luogo sacro.
[2] Chorten letteralmente significa “ricettacolo delle offerte”. Monumento con due funzioni fondamentali: da un lato è un reliquiario, dall’altro un diagramma tridimensionale dell’universo buddhista.
[3] Tulku letteralmente “Corpo di trasformazione”; termine tibetano col quale ci si riferisce a chi viene considerato reincarnazione vivente di un santo, di un grande maestro, di una divinità. (“Segreto Tibet” F.Maraini)
[4] Atsara maschera buddhista indossata da chi interpreta il ruolo del buffone (gli atsara rappresentazione degli antichi maestri della filosofia indiana)
[5] Om mani padme hum “Salve o gioiello ne fiore di Loto! È il mantra della Compassione, il più noto e diffuso
[6] Renminbi “valuta del popolo” cinese
[7] Tashi Delek è il consueto saluto tibetano.
[8] Chokor è mulinello da preghiera