20 novembre 2014. I nomadi tibetani dovranno abbandonare la terra e rinunciare al loro stile di vita entro la fine del corrente anno. Ne ha dato notizia da Londra l’organizzazione Free Tibet ricordando che i nomadi saranno costretti a trasferirsi in insediamenti urbani, per lo più squallide baraccopoli, rischiando la povertà, la disoccupazione e l’emarginazione sociale.
A partire dall’inizio degli anni ’90 le direttive politiche cinesi in materia di rilocazione della popolazione hanno portato al trasferimento di oltre un milione di agricoltori tibetani che per generazioni avevano tratto dalla terra il loro sostentamento. Il fine ultimo di tale politica è l’allontanamento di tutti i nomadi tibetani dalle loro terre entro il 2014.
Le autorità cinesi affermano che il provvedimento è necessario per proteggere i pascoli dall’eccessivo sfruttamento. Free Tibet riferisce che, al contrario, ricerche condotte da esperti indipendenti dimostrano che tale misura è scientificamente ingiustificata: le tecniche agricole praticate dai tibetani hanno in realtà protetto i pascoli per centinaia d’anni. Tuttavia i nomadi, privi delle conoscenze necessarie per opporsi alle politiche governative, sono stati persuasi – anche col ricorso alle minacce – ad abbandonare le loro terre.
Una volta trasferiti in agglomerati urbani, raramente i nomadi hanno la capacità o l’istruzione sufficienti a garantire la loro sopravvivenza. Molti sono costretti a pagare almeno i tre quarti del costo delle nuove, povere abitazioni e, a causa dei debiti, non sono più in grado di provvedere al sostentamento delle rispettive famiglie e del bestiame.
Una volta allontanati i nomadi, le compagnie cinesi potranno liberamente sfruttare il sottosuolo tibetano, ricco di risorse naturali tra le quali l’oro e il rame. In nome della modernizzazione, le imprese minerarie e quelle addette alla costruzione delle dighe hanno già preso possesso delle aree per anni consacrate all’agricoltura e all’allevamento. I tibetani hanno cercato di opporsi allo sfruttamento minerario e di difendere il territorio dalla distruzione ambientale ma le loro pacifiche proteste sono state represse dalla polizia armata paramilitare che ha infierito sui manifestanti con gas lacrimogeni e bastoni elettrici. E’ accaduto la scorsa estate, quando ventisette tibetani sono stati arrestati nella Contea di Chabcha (prefettura Autonoma Tibetana di Tsolho) per aver cercato di fermare i lavori di estrazione del marmo iniziati dai cinesi in una cava nelle vicinanze del villaggio di Karsel, ritento un luogo sacro. I manifestanti protestavano contro l’apertura della nuova cava ritenuta illegale per decorrenza dei termini di concessione. L’ultimo dei 27 arrestati è stato rilasciato due giorni fa.
Da molto tempo i tibetani si oppongono ai progetti di sfruttamento del Tibet e accusano i cinesi di attuarli senza chiedere nulla, tanto meno il permesso, ai residenti locali. In passato si sono registrate diverse manifestazioni contro progetti minerari. Nell’agosto 2013, centinaia di abitanti hanno bloccato i lavori in tre siti minerari – Atoe, Dzachen, e Chidza – della provincia di Dzatoe, provocando scontri con le forze di sicurezza cinesi che hanno lasciato decine di feriti e portato ad alcuni arresti Il governo tibetano in esilio a Dharamsala sostiene che Pechino “con la scusa dello sviluppo economico e sociale incoraggia la migrazione dei cinesi in Tibet, mettendo i tibetani ai margini della sfera economica, educazionale, politica e sociale”.
Fonti: The Tibet Post International – Redazione