20 luglio 2016. Una giovane tibetana è stata arrestata a Ngaba il 14 luglio mentre da sola percorreva la strada principale della città protestando contro l’occupazione del suo paese.
La donna, della quale non si conosce l’identità, percorreva l’ormai tristemente nota “Via dei Martiri” tenendo alta sopra la testa una fotografia del Dalai Lama. Un tibetano che per ragioni di sicurezza non ha voluto fornire altri dettagli, ha fatto sapere che la giovane, poco più che ventenne, proveniva dal villaggio di Chunde, nella Contea di Ngaba, ed era vestita di bianco. Non si hanno notizie sul luogo della sua detenzione. Questa nuova protesta porta a undici i casi di manifestazioni “solitarie” avvenute a Ngaba: si tratta di azioni spontanee e improvvise che non mettono a rischio l’intera comunità in quanto non necessitano di essere premeditate e organizzate ma che tuttavia costituiscono una sfida al divieto di assembramento imposto ai tibetani dalle autorità cinesi.
Dopo aver scontato la pena è tornato in libertà il 16 luglio “Khenpo” (abate in tibetano) Kartse, il religioso quarantenne del monastero di Jhapa, nella Contea di Nangchen, regione del Kham, arrestato il 6 dicembre 2013 nella città di Karma con l’accusa di “attività contro lo stato” e condannato nell’ottobre 2014 da un tribunale cinese della Prefettura di Chamdo a due anni e mezzo di carcere.
Conosciuto anche come Karma Tsewang, Khenpo Kartse è molto rispettato dai tibetani per il suo incessante adoperarsi in campo sociale e per l’attività svolta a sostegno e protezione della lingua, della religione e della cultura tibetana. Era stato fermato mentre si recava a Chendu per acquistare suppellettili religiose per il suo monastero.
Nei giorni successivi al suo arresto, centinaia di tibetani, monaci e laici, erano scesi in piazza con striscioni e cartelli chiedendo la liberazione dell’abate. La polizia aveva fermato e trattenuto nel centro di detenzione di Nangchen altri ventuno tibetani, compresi sedici monaci, che avevano chiesto la sua liberazione. Interrogato il 31 dicembre, Khenpo Kartse aveva rassicurato in una lettera i compatrioti facendo loro sapere di essere in buone condizioni di salute e di non avere subito torture. Aveva inoltre chiesto loro di stare tranquilli e di non prendere decisioni affrettate. Il processo era stato celebrato a porte chiuse e l’avvocato di Kartse, Tang Tianhao, aveva potuto incontrare il suo assistito solo un paio di volte. A più riprese gli era stato chiesto di abbandonare il caso. Le Organizzazioni non Governative tibetane e Amnesty International si erano mobilitate per chiedere la liberazione del Khenpo e di tutti i tibetani arrestati.
Fonti: Phayul – Tibet Post – Redazione