Di RAIMONDO BULTRINI
La Repubblica
Ormai è prassi nota a ogni Paese che concede un visto al Dalai Lama. Sia alla vigilia che dopo l’evento, la Cina diffonde le sue proteste con relativa minaccia di rompere i rapporti diplomatici e commerciali. Succede da 57 anni dopo l’esilio, e sono rimasti al mondo pochi Paesi incuranti delle conseguenze di accogliere l’odiato separatista, tra i quali – fino a ieri – la buddhista Mongolia, ex provincia sovietica indipendente con capitale Ulan Bator, separata dall’attuale Xinjiang cinese che ha la capitale a Hohhot. Per paura del potente vicino, in questi giorni anche questo popolo autonomo e devoto ha annunciato al Dalai Lama – per bocca di un ministro – che da ora in poi non sarà più bene accolto com’era sempre stato. Il ministro degli Esteri Tsend Munkh-Orgil in un’intervista ha addirittura espresso «rammarico» per aver permesso l’ultima visita del XIV leader tibetano e ha promesso a Pechino che per «l’intera durata di questo governo» non sarà autorizzato «a visitare la Mongolia neanche per scopi religiosi».
L’atto per molti versi sacrilego interrompe secoli di legami spirituali profondi tra mongoli e i lama tibetani loro maestri, con radici ininterrotte dal tempo del nostro Medioevo e del triangolo di poteri tra Tibet, Mongolia e impero cinese. Furono i mongoli a creare il nome Dalai Lama che vuol dire “Oceano di saggezza” e a conquistare col sangue vasti territori donati ai leader di questo lignaggio di sacerdoti reincarnati. Gli eredi della dinastia Yuan di Gengis Khan, convertiti al buddhismo come Altan e Kublai (il mecenate di Marco Polo), dominarono o minacciarono abbastanza a lungo il celeste impero da rendere di conseguenza potenti anche i loro maestri spirituali, soprattutto i Dalai Lama della scuola Gelupa che entrarono in pompa magna alle Corti degli imperatori Han. Il Quinto Dalai giunse a Pechino a metà del XVII secolo con un seguito di 3000 dignitari per essere ricevuto dal regnante Manchu che chiedeva non solo la sua benedizione, ma un intervento deciso per tenere a bada le temibili tribù mongole alle frontiere dove la Grande muraglia non bastava a contenerli. In occasione dell’incontro, la Corte dovette escogitare uno stratagemma per far apparire il trono dell’imperatore leggermente più in alto di quello del Dalai, non troppo da offenderlo. Il principe Manchu voleva addirittura recarsi alle porte di Pechino per ricevere il corteo dell’ospite giunto dal Tibet dopo mesi di viaggio su una palanchina, ma i consiglieri gli imposero per decoro di attenderlo a Palazzo. Un gesto ingrato verso l’erede dei predicatori che convinsero i mongoli anche a interrompere l’abitudine di lanciare da alte rupi i nemici cinesi catturati.
Da allora lo spirito del buddhismo tibetano è rimasto vivo in Mongolia senza mai estinguersi nemmeno durante le purghe dei comunisti sovietici contro la religione, e ha ripreso vigore anche grazie a legami storici e di sangue. Il Dalai Lama numero tre morì durante un pellegrinaggio nella Mongolia interna oggi cinese, e il numero quattro fu un pronipote mongolo di Altan Khan.
Oggi che il lignaggio dei Dalai è giunto al numero 14, la decisione di questi giorni di accontentare i cinesi mettendo al bando il Dalai Lama potrebbe segnare una nuova svolta non solo economica e geopolitica nei rapporti tra Pechino e Ulan Bator, ma anche religiosa. Di certo il buddhismo tibetano e il suo leader subiscono un colpo storico senza precedenti proprio dagli ex alleati tradizionalmente più fedeli, nonché loro discepoli di molte vite. Un cattivo segno per la futura incarnazione dei Dalai, già ipotecata da Pechino con un lama di suo gradimento.