Di Massimo Gaggi
5 gennaio 2017
Corriere.it
In Cina la Apple elimina dal suo store la «app» del New York Times per «adeguarsi alle norme del governo locale». Anche il gigante Usa dell’economia digitale piega la testa: pur di salvare il suo business nel Paese nel quale produce i suoi iPhone, l’azienda fondata da Steve Jobs accetta il diktat della censura di Pechino. In apparenza la storia del blocco scattato due settimane fa (ma reso noto solo ora) è quella di un nuovo cedimento alle imposizioni di un regime illiberale. Molti altri, a partire da Yahoo!, sono finiti prima di Apple nel mirino del governo cinese e hanno messo gli affari davanti ai principi.
La strana coincidenza
Del resto che quella della «democrazia universale» portata ovunque da Internet fosse un’illusione era già chiaro da anni: da quando la Cina ha eretto il suo firewall digitale, oscurando molti siti informativi occidentali, da Bloomberg a Reuters, dalla Bbc allo stesso New York Times che, però, era rimasto consultabile attraverso l’«app». Ma stavolta alla storia di ordinaria censura si aggiunge un dettaglio sospetto: Apple ha eliminato l’«app» del New York Times il giorno stesso in cui David Barboza, celebre giornalista investigativo del quotidiano, già autore di vari scoop su casi di corruzione in Cina, aveva chiesto notizie all’azienda di Cupertino su facilitazioni e sussidi per miliardi di dollari concessi dal governo cinese alla Foxconn, l’azienda che produce per conto della Apple la gran parte dei suoi iPhone. Metà di quelli venduti in tutto il mondo vengono da un singolo impianto costruito a Zhengzhou, città di sei milioni di abitanti in una regione molto povera.
Le agevolazioni
Il New York Times, con un’inchiesta imponente nella quale ha intervistato oltre 100 funzionari e dipendenti delle aziende e amministrazioni cinesi e personale della stessa Apple, ha scoperto che solo per ottenere la costruzione del grande impianto in una regione che voleva sviluppare, Pechino ha versato un miliardo e mezzo di dollari. Molti altri incentivi e sgravi fiscali sono stati garantiti alle produzioni cinese col marchio Apple, ma nessuno sa esattamente come e quanto, dato che né il governo né le imprese coinvolte forniscono informazioni in merito. Apple ha fatto presente che l’eventuale destinatario delle agevolazioni è la Foxconn: la società taiwanese proprietaria degli stabilimenti che producono per conto di Apple in Cina: un semplice contractor, un subfornitore. Solo che questa società ha costruito i suoi impianti quasi solo per un cliente: Apple. E per la società guidata da Tim Cook Foxconn è di gran lunga il principale fornitore. Nonostante il blocco della «app», il New York Times ha pubblicato ugualmente sul suo sito, il 29 dicembre scorso, l’inchiesta di Barboza: una storia che può essere facilmente utilizzata dal nuovo presidente Usa, Donald Trump, nella sua campagna contro la «concorrenza sleale» della Cina e contro le imprese americane poco patriottiche che portano produzione e lavoro in Asia.
Effetto Trump
Vendetta della Apple timorosa di finire nel mirino di Trump che ha già ottenuto da varie aziende, dalla Ford alla United Technologies, la rinuncia a costruire impianti all’estero? Un portavoce dell’azienda si è limitato a dire che l’esclusione della «app» del Times dal suo «negozio elettronico» è stata decisa nel rispetto delle disposizioni di legge cinesi: Apple ha scelto di applicare sempre le regole locali dei Paesi nei quali opera. La norma in questione, però, era stata emanata dal governo di Pechino nel giugno scorso e fin qui era rimasta lettera morta. Sarà interessante vedere ora, oltre alle reazioni della Apple, in difficoltà anche in Cina dove cresce la pressione dei nazionalisti contro l’eccessiva influenza culturale e negli affari dei giganti americani, anche quelle dello stesso Trump. Tutti e tre gli attori sul palcoscenico sono, infatti, bestie nere del neopresidente: il governo cinese, il New York Times e anche la Apple minacciata di boicottaggio dei suoi prodotti quando si rifiutò di fornire all’FBI i codici di criptaggio degli iPhone.
Massimo Gaggi
Corriere.it
5 gennaio 2017