In questo stesso giorno, nel 1959, i tibetani di ogni classe sociale insorsero inscenando una manifestazione di sfida – anche se del tutto pacifica – contro l’illegale occupazione del Tibet da parte della Repubblica popolare cinese. Oggi, nel commemorare il 58° anniversario dell’Insurrezione Nazionale Tibetana, ricordiamo e rendiamo omaggio a tutti coloro che hanno sacrificato la loro vita lottando per la nostra nazione. A partire da quella data si stima che, come conseguenza dell’invasione cinese, circa un milione di persone abbiano perso la vita e sia stato demolito il 98% dei monasteri.
Nonostante oggi sia un momento di lutto dobbiamo tuttavia essere fieri e pieni di speranza poiché nel 1959, in questa storica giornata, gli uomini e le donne di tutte tre le province del Tibet marciarono insieme sfidando l’invasore ed esplicitando le loro aspirazioni al grido di “il Tibet appartiene ai tibetani” e “non mettete in discussione l’autorità del Dalai Lama”.
Anche oggi, mentre parliamo, vi è a Lhasa una forte presenza militare e il 3 marzo di quest’anno un esercito di 5000 soldati affiancati da un convoglio di 1000 veicoli hanno effettuato a Lhasa un’imponente esercitazione militare trasformando la città in una zona di guerra.
Da allora, in Tibet, i tibetani sono stati alla testa della lotta per la libertà del paese volendo proteggere i loro diritti politici, sociali, culturali e ambientali. Nonostante l’aumento della repressione e l’intensificarsi delle pene, hanno manifestato in modo inequivocabile la loro volontà di cui è un riflesso il gesto dei 145 tibetani che si sono autoimmolati chiedendo la libertà del Tibet e il ritorno di Sua Santità il Dalai Lama.
La resilienza e il costante impegno del popolo tibetano alla pratica della non-violenza hanno ottenuto il rispetto e il sostegno di tutto il mondo.
Nel mese di giugno dello scorso anno il presidente Barack Obama ha incontrato Sua Santità il Dalai Lama alla Casa Bianca. In quell’occasione il presidente ha espresso il suo forte sostegno all’Approccio della Via di Mezzo ed ha chiesto al governo cinese di impegnarsi in un dialogo significativo con i suoi inviati. Colgo l’occasione per congratularmi una volta ancora con il presidente Donald Trump per la sua elezione. Ci sentiamo incoraggiati nell’apprendere dal nuovo Segretario di Stato Rex Tillerson che l’amministrazione Trump continuerà a sostenere la causa tibetana, a ricevere Sua Santità il Dalai Lama e a caldeggiare il dialogo tra Pechino e i rappresentanti del “governo in esilio” e/ o “del Dalai Lama”.
Nel dicembre dello scorso anno il Parlamento Europeo ha dato prova del suo interesse alla questione del Tibet adottando una risoluzione urgente in cui si chiede la ripresa del dialogo con i rappresentanti tibetani per la pacifica soluzione del problema. La risoluzione ha altresì condannato la demolizione di Larung Gar.
Nel febbraio di quest’anno, a Ginevra, alla vigilia della 34° sessione del Consiglio ONU sui Diritti Umani, sei esperti indipendenti delle Nazioni Unite hanno denunciato, in una dichiarazione congiunta e con raro coraggio, una serie di violazioni dei diritti umani in Tibet, sottolineando in modo particolare il caso di Larung Gar e di Yarchen Gar. Con parole dure gli esperti ONU hanno espresso la loro preoccupazione per la violazione delle leggi sui diritti umani e la repressione su larga scala della pratica religiosa compiute dalla Cina in Tibet.
Il governo cinese, sotto la leadership del presidente XI Jinping, ha assunto una preoccupante posizione sul problema del Tibet in quanto ha affermato che “la sicurezza e la stabilità della Cina dipendono dalla sicurezza e dalla stabilità del Tibet”. Su tale presupposto, i tibetani dovrebbero rinunciare alla loro sicurezza per “avere in cambio armonia”. Questa strategia politica autorizza una aumento della repressione nel Paese.
In un rapporto recentemente pubblicato dalla Corte del Popolo della Regione Autonoma Tibetana si afferma che nel 2016, nella sola Regione Autonoma e con il pretesto di punire la criminalità, si sono contati 1446 casi di detenzione e 1793 casi di incriminazione.
L’articolo 36 della Costituzione cinese garantisce la libertà di religione ma di fatto il Consiglio di Stato, per avere il controllo diretto su tutto quanto concerne la religione in Tibet, ha modificato la parte sulla “Regolamentazione degli Affari Religiosi”.
Lo scorso anno le autorità cinesi hanno dato inizio alla demolizione dell’Istituto di Studi Buddhisti di Larung Gar. Monaci e monache sono stati forzatamente allontanati allo scopo di ridurre a 5000 i 10.000 residenti. Le persone evacuate sono state obbligate a firmare un documento nel quale si impegnano a non fare ritorno all’Istituto e a non proseguire i loro studi in altri centri monastici nelle rispettive città di appartenenza. In modo analogo, un migliaio tra monaci e monache sono stati forzatamente allontanati dal centro monastico di Yarchen Gar. Sembra un ritorno ai tempi della Rivoluzione Culturale in Tibet.
Per i tibetani e i buddhisti l’anno in corso è iniziato con il riuscito conferimento da parte di Sua Santità il Dalai Lama della 34° iniziazione di Kalachakra. Tuttavia le autorità cinesi hanno dichiarato “illegali” gli insegnamenti preliminari impartiti da Sua Santità in India e hanno imposto pesanti limitazioni di viaggio ai tibetani provenienti dal Tibet per impedire che presenziassero alle lezioni. Chi ha fatto ritorno in Tibet ha è stato sottoposto a interrogatori, è stato strettamente sorvegliato e ha subito limitazioni alla libertà di movimento. I loro passaporti sono stati strappati o confiscati.
Mentre milioni di cittadini con passaporto cinese possono liberamente viaggiare in tutto il mondo, i tibetani in Tibet, inclusi gli stessi membri del Partito comunista, non riescono a ottenere il passaporto e non possono recarsi all’estero, anche per ricevere terapie mediche o per prendere parte a un pellegrinaggio. Un blogger tibetano residente in Tibet ha scritto: “per un tibetano, ottenere un passaporto è più difficile che andare in paradiso”.
Ai tibetani sono imposte strette limitazioni alla libertà di movimento non solo per recarsi all’estero ma anche per spostarsi all’interno del Tibet, per andare dalle regioni orientali del Kham e dell’Amdo fino a Lhasa, la capitale, sia allo scopo di rendere visita alle famiglie sia per effettuare un pellegrinaggio. I tibetani devono sottostare alle stesse limitazioni anche per spostarsi all’interno delle tre province, come è recentemente accaduto in occasione del festival delle lampade di burro, al monastero di Kumbum, e in occasione dell’annuale sessione dei Cham, le danze rituali, presso il monastero di Takstang Lhamo Kirti.
Il governo della cosiddetta Regione Autonoma Tibetana, del tutto indifferente ai sentimenti dei tibetani, una settimana prima della festa del Capodanno cinese ha reso obbligatoria l’affissione di oltre un milione di ritratti raffiguranti quattro generazioni di leader del Partito comunista nelle case, nelle scuole e nei monasteri.
Chiediamo al governo cinese di porre fine alle politiche discriminatorie, di rilasciare ai tibetani i documenti di viaggio e di rispettare la loro libertà di movimento dentro e fuori i confini del Tibet.
Circa il problema dell’ambiente, il numeroso avvio, lo scorso anno, di molte attività minerarie a cielo aperto nella zona delle montagne sacre delle Contee di Amchok e Miniak ha suscitato diffuse proteste da parte dei tibetani locali. Alla luce della gravità della situazione, gli esperti delle Nazioni Unite hanno chiesto alla Cina di fornire notizie sull’impatto ambientale causato dall’attività mineraria ad Amchok.
L’arresto e la detenzione di Tashi Wangchuk, un attivista per i diritti umani di formazione scolastica bilingue, accusato di separatismo e in attesa di sentenza, sono la prova lampante della violazione da parte della Cina della Legge sulle Autonomie Etniche Regionali previste dalla sua stessa Costituzione che assicura alle minoranze il diritto di utilizzare ed elaborare la lingua scritta e parlata.
Queste direttive politiche repressive hanno indotto i tibetani all’interno del Tibet a compiere disperati atti di protesta quali le autoimmolazioni. L’ultimo caso di autoimmolazione è quello di Tashi Rabten, un giovane di 33 anni deceduto il mese di dicembre dello scorso anno.
Nel 2016, il rapporto annuale della Commissione Esecutiva del Congresso degli Stati Uniti ha nuovamente inserito la Cina tra i Paesi di Particolare Preoccupazione (CPC). Il rapporto 2015/2016 di Amnesty International ha messo in evidenza le crescenti restrizioni imposte dal governo cinese ai monasteri tibetani. Nel 2016, il rapporto stilato da Freedom House mette la Cina al secondo posto, dopo la Siria, nella lista dei paesi con il minor grado di libertà civile e politica.
Il rapporto 2017 di Freedom House attribuisce alle autorità cinesi l’imposizione di “dure costrizioni alla pratica del buddhismo tibetano, soprattutto alla venerazione del Dalai Lama in esilio”. Il rapporto menziona inoltre “i nuovi provvedimenti entrati in vigore dal novembre 2012, tra i quali figurano le misure punitive per chi fornisce assistenza ai tibetani che si autoimmolano, la cancellazione di festival in precedenza autorizzati, l’incremento delle restrizioni in materia di pratica religiosa e le intromissioni sull’interpretazione della dottrina buddhista e sulla selezione dei leader religiosi”.
Alla luce della condanna internazionale delle linee politiche cinesi in Tibet, chiediamo ancora una volta alla leadership cinese di riconsiderare le sue fallimentari politiche, di dare ascolto alle legittime rimostranze del popolo tibetano e di risolvere l’annosa questione riguardante il Paese. A questo fine, riteniamo che il metodo migliore consista nell’adozione dell’Approccio della Via di Mezzo, una soluzione vincente per entrambe le parti, e nella ripresa del dialogo con gli inviati di Sua Santità il Dalai Lama, come più volte auspicato dal governo degli Stati Uniti e dal Parlamento Europeo.
Il Kashag fa suo il “progetto Cinque-Cinquanta”, basato sul motto di Sua Santità “sperare nel meglio e prepararsi al peggio”, che configura la soluzione della questione tibetana entro i prossimi cinque anni sulla base dell’Approccio della Via di Mezzo e allo stesso tempo intende rafforzare e sostenere l’Amministrazione Centrale Tibetana nel caso in cui la lotta per la libertà dovesse proseguire per i prossimi cinquant’anni.
In esilio, l’Amministrazione Centrale Tibetana si adopera in ogni modo per rafforzare le basi sociali della lotta politica. Nel dicembre 2016 Sua Santità il Dalai Lama ha conferito il grado di Geshema a venti monache tibetane. All’inizio di quest’anno il Kashag ha pubblicato il nuovo testo sulla “Politica di Attribuzione del Potere alle Donne” ed ha quindi convocato la prima “Conferenza sull’Attribuzione del Potere alle Donne Tibetane”. Si è così cercato di dare forma compiuta alla visione di Sua Santità che configura il contributo attivo delle donne tibetane alla leadership globale del 21° secolo. Il Kashag ha stabilito che il 12 marzo di ogni anno sia celebrata la “Giornata delle Donne Tibetana”.
La comunità tibetana in esilio costituisce un modello di successo e il movimento non-violento tibetano è fonte di ispirazione per altri movimenti nel mondo. Vi è tuttavia un marginale gruppo di propiziatori dello spirito di Dholgyal che, con il pretesto della libertà di religione e di parola, continua a denigrare il comportamento di Sua Santità il Dalai Lama e a screditare l’Amministrazione Centrale Tibetana. Sono purtroppo tristemente diventati una pedina del governo cinese. Nel condannare le loro malvagie insinuazioni chiediamo ai seguaci di Dolgyal di fare ammenda delle loro debolezze, di cambiare il loro percorso e percorrere la giusta via.
Per rinvigorire il movimento tibetano nel mondo, il Kashag dedicherà il 2017 alle campagne politiche. Il 2018 segnerà il 60° anniversario dell’arrivo dei tibetani in esilio e faremo quindi del 2018 l’anno in cui esprimeremo la nostra gratitudine e il nostro apprezzamento ai governi e alle persone che in tutto il mondo, e in particolare in India, ci hanno offerto ospitalità e sostegno per oltre mezzo secolo.
Ringraziamo il Fondo Nazionale per la Democrazia, un’organizzazione no profit del Congresso USA, per aver presentato una mozione di riconoscimento e reso onore all’Amministrazione Centrale Tibetana, l’istituzione democratica voluta da Sua Santità il Dalai Lama. Ringraziamo anche l’USAID per avere riconosciuto l’eccellenza del Sistema Medico tibetano.
Ringraziamo i governi, i leader, i parlamentari, i gruppi di sostegno e le persone che in tutto il mondo amano la libertà per avere sostenuto la giusta causa del Tibet. Li ringraziamo per averci dato lo slancio per andare avanti nonostante le difficili sfide che incontriamo nel nostro cammino. In particolare vorrei ringraziare i parlamentari del Giappone, del Canada e del Regno Unito per avermi ospitato e per il sostegno offerto alla causa del Tibet. Il loro atteggiamento è fonte di speranza e coraggio per i tibetani all’interno del Tibet.
Nel corso dell’offerta di preghiera di lunga vita, nell’ultimo giorno di Kalachakra, Sua Santità ha ribadito la sua volontà di vivere più di 100 anni. A nome di tutti i tibetani esprimo dal profondo del cuore al grande 14° Dalai Lama la nostra gratitudine per la bellissima notizia. Chiedo a tutti i tibetani di dare ascolto ai consigli di Sua Santità e di acquisire un buon karma collettivo. Poiché l’unità è il nostro fine ultimo, dobbiamo impegnarci a rinunciare ad ogni legame regionale e ad ogni forma di settarismo.
Infine, preghiamo con fervore per la lunga vita del nostro amatissimo leader, Sua Santità il Grande 14° Dalai Lama. Possano tutti i suoi desideri essere esauditi. Possa la causa non-violenta del Tibet ottenere la vittoria e vedere i tibetani riuniti con gioia nella loro patria.
Dharamsala, 10 marzo 2017