Il Tibet tradizionale, indipendente fino al 1950/1951, era veramente quella sorta di Eden spirituale, pacifico, mistico, armonioso descritto da certa pubblicistica New Age?
Assolutamente no. Il Tibet tradizionale era una società arcaica, poco progredita sotto il profilo materiale ma estremamente sviluppata sotto quello della ricerca spirituale, filosofica e interiore. Una società con tratti ancora feudali e con forti diseguaglianze sia economiche sia sociali.
Il Tibet prima dell’annessione cinese, era quella sorta di inferno sulla terra, quella società feudale, schiavista, oppressiva, descritta dalla propaganda di Pechino?
Assolutamente no. Il Tibet prima dell’annessione cinese era certo un Paese arretrato dal punto di vista del pensiero moderno così come lo erano quasi tutte le altre nazioni asiatiche tradizionali. Ma bisogna anche ricordare che era uno stato in cui non esisteva la pena di morte (abolita dal XIII Dalai Lama); in cui la donna godeva di un prestigio sociale sconosciuto nelle altre nazioni asiatiche dell’epoca; in cui il rispetto per il territorio, la sacralità della natura, il mondo animale e vegetale era una costante del sentire comune. Ma soprattutto era un luogo in cui la gente, a qualsiasi gruppo sociale appartenesse, mostrava una coesione culturale e una fiducia nei confronti del proprio stile di vita senza uguali nei Paesi limitrofi.
Il Tibet tradizionale si potrebbe definire un Paese in cui la maggioranza della popolazione era costituita da servi e da schiavi, come afferma la propaganda cinese?
Assolutamente no. In Tibet vi erano diversi gruppi sociali (aristocratici, commercianti, artigiani, contadini, pastori, nomadi) e certamente le fasce meno abbienti dei contadini e dei pastori vivevano in una condizione economica disagiata. In alcuni casi, estremamente disagiata. Ma la storia del Tibet non ha mai conosciuto, prima dell’occupazione cinese, carestie e denutrizioni di massa. I nomadi, quasi la metà della popolazione, erano nella grande maggioranza proprietari dei loro armenti e gestivano le risorse derivanti dal loro lavoro senza vincoli di sorta. Quindi l’immagine del Tibet tradizionale fornita dalla documentazione cinese è volutamente esasperata, distorta, propagandistica. Il Tibet non era uno stato in cui il 95% della popolazione era costituito da servi della gleba e da schiavi come sostiene Pechino. Certamente vi erano ambiti in cui i contadini poveri dipendevano in parte o in toto dai proprietari terrieri. Ma era tutt’altro che una condizione generalizzata.
Il Tibet tradizionale era una Teocrazia?
Non in senso stretto. O almeno non nel significato che comunemente si attribuisce a questo termine. E’ vero che la forza dell’elemento spirituale, religioso, metafisico (e a volte anche “magico”) in Tibet era rilevante. Va però tenuto presente che dalla seconda metà del XVII secolo, il governo di Lhasa era presieduto dal Dalai Lama (esponente della principale linea di reincarnati del Tibet) ma era composto sia da ministri laici sia monaci (tre laici e un monaco, per l’esattezza). E nelle varie province (dzong, in tibetano) le mansioni governative erano affidate agli dzongpon, due funzionari che erano sempre uno laico e uno religioso, proprio per cercare un equilibrio fra le due componenti. Premesso questo, va comunque ricordato che, proprio per la notevole importanza dell’elemento religioso nella vita del popolo tibetano, il monastero e la figura del monaco svolgevano un ruolo di estremo prestigio sociale.
E’ vero che il Tibet ha sempre fatto parte della Cina, prima di quella imperiale e poi di quella repubblicana?
Assolutamente no. E’ noto che nel corso di oltre un millennio di storia, Tibet e Cina hanno avuto differenti tipi di relazioni. Prima di affrontare questo argomento si deve però ricordare come il popolo tibetano e quello cinese siano differenti per etnia, lingua, scrittura (quella tibetana è alfabetica, quella cinese ideogrammatica), religione, composizione sociale, cultura. Tibet e Cina hanno inoltre due storie differenti e il primo non è mai stato parte integrante dell’impero cinese. Quando la Cina venne conquistata dai mongoli (dinastia Yuan, 1279-1368) il lama tibetano Chogyal Phagpa (1235-1280, massimo esponente della scuola Sakya) convertì al Buddhismo (o quantomeno influenzò in senso fortemente positivo) il khan mongolo Kubilai (1215-1294), all’epoca imperatore della Cina. Kubilai, in segno di omaggio verso Chogyal Phagpa gli offrì il governo del Tibet e venne così a stabilirsi quella particolare relazione tra Imperatore (Kubilai) e Maestro (Phagpa) definita in tibetano cho-yon. In pratica Phagpa, e dopo di lui i successivi detentori del lignaggio Sakya, governarono (fino alla caduta della dinastia Yuan), il Tibet sotto la protezione degli imperatori mongoli. Questo particolare rapporto decadde con la fine del dominio mongolo in Cina e con l’ascesa al potere in Tibet della famiglia Phagmodru (1354). Per tutto il lungo periodo in cui la Cina fu governata dai Ming (1368-1644), la relazione cho-yon non fu più in vigore e il Tibet vide alternarsi alla guida del Paese due altre famiglie (principi di Rinpung e sovrani di Tsang) per poi giungere nel 1642 alla creazione del sistema di governo con a capo il V Dalai Lama. Alla morte di questi (1682) e fino alla caduta della dinastia manciù (1911) tornò in auge la relazione cho-yon. Il Tibet, soprattutto in alcuni periodi, fu costretto a far parte della “sfera di influenza” cinese ma non venne mai incorporato nell’impero* anche se dal 1720 dovette accettare la presenza a Lhasa di due amban (sorta di ambasciatori) e di una piccola guarnigione cinese. A seguito della proclamazione della Repubblica in Cina (1912), il XIII Dalai Lama dichiarò decaduta la relazione cho-yon e rilasciò una dichiarazione formale di indipendenza del Tibet (febbraio 1913). Da quella data fino al 1951, il governo di Lhasa fu del tutto indipendente da Pechino. Firmò trattati, ricevette delegazioni internazionali, partecipò a conferenze internazionali, inviò in altre nazioni suoi diplomatici in possesso di regolare passaporto rilasciato da Lhasa.
Quella avvenuta nel 1950/1951 si può quindi considerare una illegale invasione di un Paese fino ad allora indipendente?
Assolutamente si. Quando nell’ottobre del 1950 l’esercito della Repubblica Popolare di Cina entrò in Tibet, dovette vincere la resistenza dell’esercito tibetano violando con la forza delle armi, sei posti di frontiera. Ergo, si trattò di una illegale invasione di una nazione da parte di un’altra. Il Tibet, nel 1950 era un Paese del tutto indipendente, con un governo in grado di esercitare la propria autorità sul territorio, una frontiera con dei confini riconosciuti, un esercito, una zecca che emetteva monete e banconote di corso legale, un regime postale riconosciuto internazionalmente.
Quale che sia il giudizio sulla società tradizionale tibetana e sulla sua forma di governo, è esatto dire che il Dalai Lama, l’amministrazione tibetana in esilio, i tibetani (sia i profughi sia quelli rimasti in Tibet) vogliono tornare alle condizioni sociali, politiche, economiche del Tibet pre invasione cinese?
Assolutamente falso. Il Dalai Lama ha più volte esplicitamente affermato che molte cose erano da cambiare nella società tradizionale del Tibet. Sia perché superate dagli avvenimenti sia perché ingiuste e ove il Tibet tornasse libero in nessun caso si tornerebbe alle forme di governo che regolavano l’antica società. Pur nelle difficili condizioni dell’esilio, il leader tibetano ha messo infatti in opera una politica di modernizzazione e democratizzazione del “Piccolo Tibet dei rifugiati”. Nel 1963 ha promulgato una costituzione democratica; le istituzioni legislative in esilio (governo, parlamento, etc.) sono scelte tramite libere elezioni e dal marzo 2011 il Dalai Lama ha rinunciato al ruolo di guida del governo e ad ogni altro incarico politico. Pur con tutte le difficoltà del caso, è indubbio che i tibetani che vivono fuori dal Tibet all’interno delle comunità organizzate dalla Central Tibetan Administration (CTA), godono di libertà sconosciute a quelli rimasti nel Tibet occupato da Pechino.
E’ vero che negli ultimi anni oltre 150 tibetani si sono immolati con il fuoco in segno di protesta contro l’occupazione cinese del Tibet?
Vero. E’ una drammatica forma di protesta che ha visto a tutt’oggi (settembre 2017) immolarsi con il fuoco 153 tibetani di ogni età, sesso e condizione sociale. Le immolazioni sono avvenute sia nella Regione Autonoma del Tibet (6), sia nelle aree che facevano parte del Tibet indipendente, Amdo (116) e Kham (31) oggi incorporate nelle provincie cinesi di Chingai, Gansu, Sichuan, Yunnan. Altri dieci tibetani si son dati fuoco fuori dal Tibet, in India. Le richieste di questi martiri sono principalmente il ritorno del Dalai Lama e l’indipendenza del Tibet ma alla base di questi tragici gesti vi è anche lo stato di profondo disagio dovuto a oltre 60 anni di occupazione coloniale cinese.
E’ vero che l’annessione da parte della Cina ha portato al Tibet molteplici vantaggi in termini di progresso economico e modernizzazione della società?
Falso. L’occupazione cinese del Tibet ha comportato nei primi decenni un costo elevatissimo in termini di uccisioni e condizioni di vita dei tibetani. Autorevoli fonti internazionali (tra cui l’International Commission of Jurist, che in un suo documento del 1960 aveva accusato Pechino di aver commesso in Tibet “atti di genicidio”) parlano di oltre un milione di vittime, dirette e indirette, causate dall’occupazione cinese, dalla carestia seguita alla campagna maoista nota come Grande Balzo in Avanti (1958-1961) e dalla Rivoluzione Culturale (1966-1976). Inoltre non si deve dimenticare la distruzione del patrimonio artistico-architettonico del Tibet (alla fine della Rivoluzione Culturale, degli oltre seimila monasteri ne rimanevano in piedi meno di una decina). A partire dagli anni ’80 dello scorso secolo, con il nuovo corso voluto da Deng Tsiao Ping, la modernizzazione del Tibet ha prodotto uno sfruttamento massiccio delle risorse naturali del Tibet che, oltre ad avere un impatto devastante sul fragile ecosistema della regione, è andato quasi esclusivamente a beneficio del governo centrale cinese mentre la popolazione tibetana non ha ricevuto che le briciole. Infine deve essere ricordato l’imponente afflusso di coloni cinesi che oggi superano in numero gli stessi tibetani; l’utilizzo quasi esclusivo della lingua e della scrittura cinese in tutte le transazioni economiche, commerciali e in ogni ordine di studi; il controllo totale di ogni aspetto della vita religiosa, sia nei monasteri sia fuori di essi; il trasferimento forzato di oltre il 60% dei nomadi tibetani in città ghetto dove non possono continuare il loro peculiare stile di vita; la distruzione urbanistica dei quartieri tradizionali tibetani a Lhasa, Gyantse, Shigatse e Chamdo; la negazione di ogni diritto umano (politico, religioso, economico, culturale, etc.) per le donne e gli uomini del Tibet. La drammatica “politica delle immolazioni” è un prodotto terribile di questo stato di cose.
Piero Verni
* con l’eccezione degli anni tra il 1909 e il 1911 quando il generale manciù Chung-yin conquistò Lhasa costringendo il XIII Dalai Lama a riparare nell’India britannica.