6 marzo 2019. Il 10 marzo è una data importante per i tibetani. Nel 1959, in questo stesso giorno, la popolazione di Lhasa, esasperata dalla brutalità della repressione cinese, insorse contro l’occupante a difesa dell’incolumità del Dalai Lama.
Ogni anno i tibetani e i gruppi di sostegno al Tibet ricordano in tutto il mondo la data del 10 marzo 1959, quando il risentimento dei tibetani, esasperati dalla brutale politica di repressione seguita all’invasione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese, sfociò in un’aperta rivolta nazionale. L’esercito cinese stroncò l’insurrezione con estrema brutalità uccidendo, tra il marzo e l’ottobre di quell’anno, nel solo Tibet occidentale, più di 87.000 civili. Il Dalai Lama, seguito da circa 100.000 tibetani, fu costretto a fuggire dal Tibet e chiese asilo politico in India dove fu costituito un governo tibetano in esilio fondato su principi democratici.
Da allora la morsa di Pechino sul Paese delle Nevi non si è mai allentata e il Tibet di allora sembra non esistere più nonostante i tibetani si siano sempre battuti – oggi come in quell’ormai lontano 1959 – a difesa della propria cultura, della religione, della loro lingua, dei loro legittimi diritti. Oltre 160 tibetani, uomini, donne, laici e religiosi, hanno dato la vita cospargendosi di benzina e dandosi fuoco invocando la libertà per il loro paese e il ritorno del Dalai Lama, in migliaia sono scesi a più riprese nelle piazze e nelle strade manifestando contro gli intollerabili soprusi, le violenze, gli arresti arbitrari e le torture inflitte nelle carceri.
Per non dimenticare la loro resistenza e il loro eroismo riproponiamo ai lettori quanto accadde il 10 marzo 1959 e nei giorni immediatamente successivi attraverso il racconto tratto da “Il Tibet nel Cuore” di Piero Verni. A tutti, l’invito ad essere a fianco dei tibetani il 10 marzo a Bruxelles e ad esporre la bandiera tibetana su finestre e balconi in segno di solidarietà e vicinanza ad un popolo che rivendica libertà e giustizia.
“…A Lhasa la tensione divenne intollerabile. I tibetani non solo erano costretti a subire ogni genere di violenze e soprusi ma dovevano anche assistere impotenti alle quotidiane umiliazioni inflitte al loro leader più amato, il Prezioso Protettore. All’inizio del marzo 1959 mentre nella capitale tibetana si celebrava il Monlam Chenmo, la Festa della Grande Preghiera forse la principale ricorrenza religiosa dell’intero anno, il Dalai Lama venne invitato a partecipare ad uno spettacolo che si sarebbe tenuto al quartier generale delle truppe cinesi. In realtà più che di un invito si trattò di una vera e propria convocazione dal momento che fu chiesto a Kundun di venire senza l’usuale scorta e accompagnato solo da un pugno di funzionari, peraltro disarmati. Il Dalai Lama, nonostante il parere negativo dei suoi ministri decise che un suo rifiuto avrebbe ulteriormente irritato i cinesi e quindi accettò di recarsi negli insediamenti militari cinesi alle condizioni che questi avevano posto. Ma quando i tibetani appresero la notizia decisero che non avrebbero permesso che il loro leader si consegnasse inerme nelle mani dei militari cinesi. Il popolo era convinto che lo spettacolo non fosse altro che un pretesto per rapire la Presenza. Testimoni oculari dissero di aver visto tre aerei pronti a decollare sulla pista del piccolo aeroporto di Damshung a un centinaio di chilometri da Lhasa. Altri raccontavano di aver sentito Radio Pechino affermare che il Dalai Lama era atteso nella capitale per partecipare alla ormai prossima riunione dell’Assemblea Nazionale Cinese. Tutti si dicevano decisi a difendere Kundun anche a costo delle loro vite. Il clima era ormai pre-insurrezionale. La miscela rappresentata dai profughi delle regioni nord-orientali, dai membri della resistenza, dai pellegrini convenuti a Lhasa per le celebrazioni del Monlam e dalla gente normale esasperata da anni di occupazione, si rivelò esplosiva. Ognuno aveva la sua tragica storia da raccontare e i suoi rimedi da proporre. Ci si eccitava gli uni con gli altri e il numero dava l’errata sensazione di poter essere abbastanza forti da sconfiggere l’occupante. Il risultato di questo stato di cose fu un imponente assembramento di popolo che si riunì intorno al Norbulinka (la residenza estiva) dove si trovava il Dalai Lama. La gente chiedeva apertamente al governo di ripudiare il Trattato in Diciassette Punti e che i cinesi se ne andassero dal Tibet. Quello che la folla voleva ormai andava ben oltre la partecipazione del Prezioso Protettore allo spettacolo cinese. La parola d’ordine era, “Libertà e Indipendenza”.
Ovviamente i cinesi erano furiosi per quello che succedeva in città e pretendevano non solo che il Dalai Lama si recasse al loro quartier generale ma che il suo governo disperdesse con la forza gli “assembramenti non autorizzati”. Tenzin Gyatso era quindi in una difficilissima posizione. Da un lato sapeva bene che i timori della sua gente erano più che fondati ed era commosso dalla lealtà e dall’affetto dei suoi sudditi, dall’altro si rendeva perfettamente conto che nulla avrebbero potuto contro il micidiale apparato bellico dei loro nemici. Decise quindi di fuggire sperando in questo modo di calmare le acque, far scendere la tensione sotto il livello di guardia e poi riprendere la strada del dialogo e delle trattative.
La notte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un piccolo gruppo di persone tra cui vi erano i suoi famigliari e alcuni ministri uscì segretamente dal Palazzo d’Estate per cercare rifugio nelle zone meridionali del Tibet ancora non del tutto controllate dai cinesi. Purtroppo le speranze del Dalai Lama che una sua partenza avrebbe potuto sistemare le cose si dimostrarono vane. La notte tra il 19 e il 20 marzo cominciò la battaglia di Lhasa. I cinesi bombardarono il Norbulinka, probabilmente sperando che la Presenza potesse morire sotto le bombe, e poi attaccarono la città. Vennero colpiti il Potala, il Jokhang, le abitazioni. La gente combatteva per le strade una lotta eroica ma impari. Le donne e gli uomini di Lhasa affrontavano un esercito moderno ed equipaggiato di tutto punto, armati con vecchi fucili, coltelli e bastoni. I soldati di Pechino furono implacabili e decine di migliaia di persone, in gran parte civili, morirono sotto i colpi di una repressione feroce. Il governo tibetano venne sciolto e tutte le autonomie riconosciute dal Trattato in Diciassette Punti abolite. Il Dalai Lama riuscì a stento a mettersi in salvo. Scortato da un pugno di uomini della resistenza raggiunse dapprima Lhuntse Dzong, una località vicina al confine indiano, dove in un primo tempo pensava di fermarsi in attesa di tornare a Lhasa. Ma di fronte al precipitare della situazione e alle notizie terribili che giungevano dalla capitale decise che non aveva altra scelta se non riparare in India dove giunse il 31 marzo dopo un viaggio che in tutto era durato due settimane e durante il quale aveva percorso oltre un migliaio di chilometri. Il governo di Nuova Delhi concesse immediatamente asilo politico al Dalai Lama che dall’India chiese aiuto alla comunità internazionale per il suo martoriato Paese sul quale erano calate le tenebre di una lunga notte di orrori e tragedie che non è ancora terminata”.