12 giugno 2019(Repubblica.it). Stesso posto, stessi ombrelli per proteggersi dai lacrimogeni della polizia, stessa voglia di non cedere, cinque anni dopo.
Si sta trasformando in una nuova Occupy, come quella del 2014, la protesta di migliaia di persone, molti giovanissimi, attorno ai palazzi del potere di Hong Kong. Dall’alba i manifestanti hanno occupato le strade che circondano il governo e il consiglio legislativo della città, dove oggi doveva riprendere la discussione della contestatissima legge che consentirebbe l’estradizione dei sospetti verso la Cina, vista come una minaccia all’autotomia della città. La seduta è rinviata a orario o giorno non precisato, i quartieri del centro sono paralizzati, la situazione molto tesa. I manifestanti, molti dei quali indossano mascherine e occhiali industriali, sono fronteggiati da centinaia di poliziotti in tenuta anti sommossa, schierati per proteggere i centri nevralgici della politica di Hong Kong. I ragazzi spingono avanti barricate fatte di transenne, per contenerli la polizia ha utilizzato spray al peperoncino e gas lacrimogeni, ma finora non ha caricato per disperdere la folla. Nelle retrovie, le organizzazioni pro democrazia hanno ricostruito tutto l’apparato di supporto già visto nel 2014, preludio per una lunga occupazione: rifornimenti di cibo e acqua, distribuzione di mascherine e ombrelli, palchi improvvisati per i comizi. “Avevamo detto che saremmo tornati, siamo tornati”, gridano gli esponenti più combattivi nel campo democratico.
Una escalation attesa, vista l’evoluzione delle ultime ore. Dopo l’enorme marcia contro la legge che domenica scorsa ha portato in strada un milione di persone, la chief executive Carrie Lam, la leader filo-cinese della città, ha annunciato che l’iter va comunque avanti con procedura espressa: il voto finale è stato fissato entro giovedì 20. Di fronte a questa accelerazione il campo democratico aveva annunciato nuove manifestazioni in settimana, ma nella giornata di ieri tra gli attivisti si sono diffusi appelli ad organizzare scioperi e proteste, che tra questa notte e le prime ore della mattina si sono tradotti nella nuova occupazione del centro. Una mobilitazione a cui sembrano unirsi sempre più persone e sigle del variegato universo pro democrazia.
La legge della discordia regola le procedure di estradizione tra Hong Kong e i governi con cui oggi non ha accordi in materia. Tra questi c’è anche la Cina continentale, dove i tribunali dipendono dal Partito comunista: se entrasse in vigore Pechino potrebbe ottenere la regolare estradizione dei sospetti (o dei nemici) da processare. Carrie Lam ha detto che la norma serve a colmare un vuoto normativo, impedendo che Hong Kong diventi un rifugio per i criminali. Ma per il campo democratico il testo è stato dettato da Pechino, che del resto lo ha esplicitamente appoggiato: per molti è un nuovo tentativo da parte della Cina di Xi Jinping di cancellare libertà e stato di diritto garantiti all’ex colonia britannica dal principio “un Paese, due sistemi”. Contro la legge si sono espressi avvocati, organizzazioni imprenditoriali, anche internazionali, e diversi governi stranieri, tra cui quelli di Stati Uniti e Regno Unito.
Che succederà ora? Il rinvio della seduta del Parlamento, anch’esso dominato da forze pro Pechino, è una vittoria dei manifestanti. Nel 2003, di fronte a proteste simili, una legge molto restrittiva sulla sicurezza fu ritirata. E rispetto al fallimento del movimento pro democrazia degli ombrelli, questa volta il campo progressista sembra molto più coeso. Eppure la risolutezza con cui Lam ha difeso questa norma non lascia sperare in un passo indietro. Soprattutto perché nelle ultime ore il governo cinese ha continuato a esprimersi pubblicamente in suo favore, accusando i manifestanti, attraverso i quotidiani di regime, di essere manipolati da forze straniere. Così questa legge, dopo essersi trasformata in una lotta per l’identità di Hong Kong, si sta caricando di un valore ulteriore, diventando un simbolo dell’effettiva autorità esercitata dal Partito comunista sulla città. Se dovesse essere ritirata, sarebbe una grave sconfitta non solo per Carrie Lam ma anche per Xi Jinping e per la sua politica nazionalista e assertiva. Una sconfitta che il leader cinese, in questo momento di tensioni, difficilmente si può permettere.
Di Filippo Santelli
Repubblica.it
12 giugno 2019