1 agosto 2019
Nei centri della provincia dello Xinjiang, nell’Ovest della Cina, dove gli abitanti di fede islamica vengono «rieducati» alla pace. Ma per Pechino sono solo scuole vocazionali
Squadra di reporter
«Ma se questo fosse vero — ci dice da New York Sharon Hom, direttore esecutivo di Human Rights in China — perché nessuno può lasciare di sua iniziativa questi campi? Perché i parenti non hanno la possibilità di vedere i loro cari?». Il Corriere è stato invitato a partecipare a una rara visita ad alcuni di questi centri per la rieducazione degli uiguri, insieme con i giornalisti di altri 24 Paesi, compresi rappresentanti del mondo islamico e della Turchia, forse la nazione più sensibile alla sorte di questi suoi lontani «parenti». Naturalmente, nessuno si aspettava di entrare in un luogo chiuso da filo spinato e protetto da torrette di guardia e agenti armati, così come denunciato soprattutto in Occidente: «In quelle zone — ci dice ancora senza mezzi termini Sharon Hom — è in atto un genocidio culturale».
Barriera di diffidenza
Tuttavia, l’opportunità di superare una barriera di diffidenza e paura, l’occasione di osservare in prima persona una realtà tanto complessa ha consigliato di accettare l’offerta, così come prima di noi aveva deciso di fare la Bbc. Il programma, intenso, ha avuto inizio con una mostra, cruda e senza filtri, sulle azioni terroristiche di estremisti islamici, a Urumqi, il capoluogo dello Xinjiang, come in altre città cinesi: Pechino compresa. Quindi tappa all’Istituto islamico che prepara i futuri imam «di Stato», diretto con voce profonda e piglio militaresco dallo Sheik Abdu Rakef, capace di interagire in arabo fluente con i reporter arrivati dall’Arabia Saudita e dall’Egitto, o in cinese con gli accompagnatori della variegata compagine mediatica. «Il governo della Repubblica Popolare ha sempre dato grande attenzione allo sviluppo della religione islamica», assicura lo sheik (titolo conseguito all’Università di Al Azhar, al Cairo) davanti a una classe vicina al diploma che porterà i nuovi leader religiosi nelle tante moschee della provincia. «Basta che fede e politica restino separati».
La versione cinese
Più esplicita la signora Tian Wen, segretaria locale del Pcc: «Ci accusano di aver costruito campi di concentramento. Ma la verità è un’altra: noi cerchiamo di trasformare il loro desiderio di morte in desidero di vita». È davvero così? Secondo il ricercatore tedesco Adrian Zenz, unico occidentale ad aver consultato documenti ufficiali del governo cinese, questi centri «sono luoghi di internamento coercitivo», non certo «scuole vocazionali». Nel «Centro di educazione professionale» (Jiaopei zhongxin) della Contea di Shule, a pochi chilometri da Kashgar, antico snodo carovaniero dell’estremo Ovest cinese, sono ospitati circa mille «studenti», insieme a venti cuochi adibiti alla loro mensa e otto guardiani (disarmati) che si danno il cambio alla porta carraia. I giornalisti stranieri, osservati con malcelata curiosità dai ragazzi che affollano le aule, sono accolti dal direttore Mehmet Ali, 45 anni, anche lui uiguro: «Questa scuola — dice senza enfasi — è stata fondata nel 2018. Vedrete voi stessi: chi studia qui ha l’opportunità di migliorare la propria capacità di comunicare con il resto del Paese, imparando il mandarino, un mestiere e leggi e costituzione della nostra Patria».
Le leggi e la Costituzione
L’accento sul rispetto di leggi e costituzione della Cina è costante. In verità, appare chiaro che l’aspetto che si vuole chiarire e sul quale si basa la metodologia di insegnamento (ripetizione in coro dei precetti guidati dal docente di turno) — una costante nelle scuole dell’Impero — è che non si può infrangere la «pax sinica», per nessun motivo. All’interno del mondo che si riconosce in oltre tremila anni di storia e cultura, si dà per scontato il ruolo guida degli Han (l’etnia cinese propriamente detta) che al momento opera attraverso il Partito comunista ma che in altre ere guidava l’immenso crogiolo di civiltà per mezzo della figura confuciana del funzionario-letterato: in una parola, il Mandarino. E i racconti dei giovani che accettano di «confessare» i loro «crimini» davanti ai giornalisti stranieri (nessuno scommette sulla spontaneità delle loro parole) interpretano fino in fondo la necessità di «riconoscimento attraverso l’autocritica» dell’autorità nazionale: «Ero uno sciocco, mi sono fatto conquistare da un’ideologia violenta», dice Aizaiti Ali, 25 anni. «Ho imparato su Internet come fare una bomba», recita Kuer Banjiang, 23 anni. C’è anche una ragazza, Kurban Gul, 22 anni: «Ho diffuso video jihadisti. Ho creduto alla propaganda che mi insegnava a odiare i cinesi perché pagani».
Nella camerata
Più tardi, il Corriere si è trovato, da solo, in una camerata, linda e ordinata, dove uno «studente» si rilassava prima della mensa suonando la chitarra: nei suoi occhi non c’era tristezza, ma una serena rassegnazione e la consapevolezza di non avere altra strada davanti a sé. «Negli ultimi trenta mesi — afferma con prudenza la signora Tian Wen — non ci sono stati attentati: vuol dire che i nostri sistemi sono efficaci». Ai reporter resta il ricordo di una visita a vere scuole, istituti professionali che potrebbero appartenere ai normali circuiti educativi. Ma anche la consapevolezza di non poter raccontare ciò che non si è potuto vedere.
Di Paolo Salom