13 gennaio 2020.
A partire dal primo maggio prossimo, nella Regione autonoma del Tibet (Tar) entreranno in vigore nuovi regolamenti per “rafforzare l’unità etnica”. Lo annunciano i media di Stato cinesi. Quattro anni fa, Pechino ha adottato politiche simili nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang (Xuar). I funzionari governativi locali le hanno spesso per giustificare provvedimenti repressivi contro la minoranza uigura e altre comunità turcofone di religione islamica.
Secondo quanto riferito ieri dal Tibet Daily, il Congresso del popolo della Tar ha approvato le nuove regole due giorni fa. Il quotidiano del Partito comunista afferma che i regolamenti imporranno la responsabilità di lavorare all’unità etnica a governo, aziende, organizzazioni comunitarie, villaggi, scuole, gruppi militari e centri di attività religiosa. Essi sono chiamati a sostenere gli sforzi per sviluppare il commercio locale, il turismo e le industrie artigianali e costruire marchi locali. Tutte le componenti della società sono incoraggiate anche ad “integrare l’unità etnica nella gestione e nella cultura delle aziende, reclutando dipendenti di tutti i gruppi etnici”. Ai sensi dei regolamenti, settembre è designato come il mese per condurre attività di promozione dell’unità etnica nella regione.
Citando Lin Qingzhi, vicesegretario generale del Comitato permanente della legislatura tibetana, il sito internet Tibet.cn afferma che le nuove politiche sono state progettate per “unificare il senso di comunità della nazione cinese”. Tibet.cn ha anche riportato le parole di un funzionario governativo non identificato, secondo cui “il Tibet è entrato in una nuova era di sviluppo a lungo termine con pace e stabilità. Questi regolamenti devono consolidare le pratiche e i risultati nella costruzione di relazioni etniche armoniose e stabilire un modello per tutte le persone e le industrie del Tibet”.
Nonostante i buoni propositi annunciati dal regime, i tibetani che vivono all’estero raccontano di una sicurezza cinese “soffocante”, di sfruttamento da parte di Pechino delle risorse della regione himalayana, mentre la lingua e la cultura buddista vengono lentamente soffocate. Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama e capo spirituale del buddismo tibetano, è stato costretto ad abbandonare il Palazzo Potala (sua residenza ufficiale) durante la rivolta tibetana contro il dominio militare cinese nel 1959.
Da quella data, il leader religioso ha trovato rifugio a Dharamsala (India). Sebbene abbia cercato molte volte di dialogare con Pechino, per salvaguardare l’autonomia della religione e della cultura tibetana minacciati da un “genocidio culturale”, il Partito comunista cinese lo ha sempre bollato come un “pericoloso separatista” che vuole l’indipendenza del Tibet. Nel desiderio di poter ritornarvi, nel 2011 egli ha rinunciato alla sua carica politica per rimanere solo capo spirituale. Ma il Partito comunista cinese continua a considerarlo un “lupo travestito da agnello”.
Fonte: Asianews – 13 gennaio 2020