15 febbraio 2024
“Durante le vacanze scolastiche, per tornare a casa dobbiamo passare attraverso numerosi posti di blocco. I nostri bagagli e zaini, altri accessori e persino i telefoni cellulari vengono scansionati e perquisiti. L’ultima volta ci è stato chiesto di scaricare e installare un’applicazione di sicurezza che, se trovata cancellata al controllo successivo, saremo costretti a scaricare e installare di nuovo”.
Prende le mosse da questa testimonianza – raccolta nel settembre scorso da un giovane di Golog, nel Tibet orientale, che oggi vive in esilio – un nuovo rapporto di Turquoise Roof, una rete di ricercatori, analisti e studiosi del Tibet promossa da Kate Saunders e Greg Walton. Intitolato “I Big data come arma: decodificare la sorveglianza digitale cinese in Tibet” esamina nel dettaglio il funzionamento di alcuni strumenti utilizzati da Pechino per il controllo e la repressione dell’identità locale nella provincia tibetana.
L’app di cui si parla nella testimonianza è quella del Centro Nazionale Antifrode. Sebbene il suo scopo sia descritto come lotta alle “frodi”, la sua installazione forzata sugli smartphone nel contesto tibetano diventa una prova della complessa e capillare architettura di sorveglianza messa in atto da Pechino. In collaborazione con l’ong Tibet Watch, Turquoise Roof ha effettuato un’analisi dinamica della versione Android e Windows Desktop dell’app in questione. Ed è puntualmente emerso che – come era facilmente immaginabile – il programma va a indagare tutti i dati presenti sul dispositivo e oltre a quelli legati alle indagini sulle frodi è in grado di trasmetterne molti altri destinati a sistemi di sorveglianza ben più ampi gestiti dalla polizia criminale cinese.
Parallelamente Turqoise Roof ha scoperto dall’analisi dei bandi di gara governativi l’esistenza di un’altra piattaforma di big data nota come “Tibet Underworld Criminal Integrated Intelligence Application” che, attraverso un sistema centralizzato alimentato da un database Oracle (multinazionale informatica con sede ad Austin, in Texas) monitora ogni forma di espressione culturale, religiosa o di impegno sociale. In un contesto in cui anche la difesa pacifica dei diritti linguistici o i gruppi sociali che lavorano per i senzatetto o per il benessere degli animali in Tibet sono criminalizzati dalle autorità cinesi.
Quest’indagine fa luce sulla portata dei meccanismi di intrusione del Partito comunista cinese nella sfera personale. Un fatto di cui i tibetani sono ormai ampiamente consapevoli. Per questo sono costretti a tenerne conto nel modo in cui si relazionano gli uni con gli altri, in taluni casi – sostiene Turqoise Roof – portando persino a una completa rottura dei contatti. Sono state infatti effettuate anche detenzioni per semplici messaggi scambiati su WeChat – la popolare applicazione di messaggistica di proprietà dello Stato cinese – che fino a un decennio fa era ampiamente utilizzata anche dai tibetani dentro e fuori dal Tibet. Oggi hanno imparato ad autocensurare alcune parole chiave sia nella lingua scritta sia in quella parlata e a utilizzare invece parole in codice durante le loro comunicazioni online.
Sullo sfondo resta ovviamente il corrispettivo “fisico” di questa campagna digitale, con gli arresti di prigionieri politici, le torture, la crescente predominanza della lingua cinese nelle scuole tibetane, la sorveglianza nei monasteri e il rapido declino della comunità nomade tibetana attraverso i divieti di pascolo, la recinzione dei pascoli e lo sfollamento dalle loro terre, documentati da Tibet Watch.
AsiaNews – 15 febbraio 2014