26 settembre 2024.
A seguito delle manifestazioni di protesta organizzate a Parigi dai tibetani e dai loro sostenitori, il Museo du Quai Branly ha rimosso dalla mostra sull’arte tibetana il termine Xizang con il quale i cinesi chiamano il Tibet. Nessuna risposta ancora dal Museo Guimet
Sull’argomento pubblichiamo l’articolo di Bruno Philip pubblicato in data odierna su Le Monde in cui vengono riportate le considerazioni dei dirigenti dei due musei.
Continua a far discutere la polemica suscitata dalla pubblicazione su Le Monde del 31 agosto di un articolo di eminenti tibetologi e sinologi francesi in cui si affermava che due importanti musei nazionali si erano “piegati” ai “desiderata” di Pechino in merito all’esposizione di reperti tibetani.
L’articolo che ha accusato il Musée national des arts asiatiques-Guimet e il Musée du quai Branly-Jacques-Chirac di Parigi di aver “cancellato” il nome “Tibet” (che è stato un regno indipendente o semi-indipendente per tutta la sua lunga storia, prima di essere invaso dai soldati maoisti nel 1950) dalle loro sale per compiacere la Cina, sta suscitando nuovo scalpore: Il presidente del governo tibetano in esilio, con sede nella città indiana di Dharamsala, ha inviato una lettera di protesta ai ministeri della Cultura e degli Esteri, al sindaco di Parigi e ai musei coinvolti.
“Scrivo per esprimere la mia più profonda preoccupazione e delusione nell’apprendere che questi due musei stanno usando la denominazione cinese di ‘Xizang’ e ‘Mondo Himalayano’ invece di ‘Tibet’ per presentare le loro collezioni di arte tibetana”, sottolinea il Sikyong Penpa Tsering. Secondo il presidente eletto del governo tibetano in esilio, “non solo il termine ‘Xizang’ distorce la storia del Tibet come nazione indipendente, ma sostiene anche i tentativi in atto da parte del governo cinese miranti a sopprimere l’identità tibetana”.
La semantica cinese
Il Musée Guimet e il Musée du Quai Branly sono oggetto di critiche per due questioni distinte, anche se collegate: al primo museo i tibetologi criticano le modifiche nominali apportate allo spazio espositivo, che è stato recentemente presentato sotto l’etichetta “Nepal-Tibet”: Le arti tibetane e nepalesi sono ora raggruppate sotto la voce “Mondo himalayano”, dando credito al sospetto di una volontà di emarginare il nome stesso del Tibet – che è peraltro ancora menzionato in alcune delle etichette esplicative apposte davanti alle vetrine. Il secondo è stato criticato per aver usato per anni il nome “Regione autonoma dello Xizang” per designare il Tibet, alimentando ancora una volta i sospetti di una posizione pro-Pechino…
Per capire le ragioni di questa polemica, occorre spiegare perché l’uso della semantica cinese offende i tibetani e indigna alcuni esperti del Tibet: innanzitutto, dalla fine del 2023, il nome “Xizang” (che significa “tesoro dell’Occidente”, termine che i cinesi usano per designare il Tibet) è stato imposto da Pechino in tutta la documentazione in lingua straniera e negli scambi diplomatici dedicati al Tibet.
Fino ad allora, il nome “Tibet” era ancora utilizzato ufficialmente, ma accanto al termine “regione autonoma”, una creazione amministrativa con confini artificiali risalente al 1965, che designava solo una parte del Tibet originario. L’uso di “Regione autonoma dello Xizang”, formula eminentemente politica e coloniale, pone quindi un problema: il mondo tibetano non è confinato nello “Xizang”, ma comprende anche in altre province dove, dopo l’invasione cinese, sono state create “prefetture” prevalentemente a cultura tibetana.
Secondo l’antropologa e tibetologa Katia Buffetrille “le pressioni di Pechino per eliminare il nome ‘Tibet’ a favore dell’appellativo cinese ‘Xizang’ testimoniano il desiderio di cancellare dalle mappe e dalla mente delle persone l’esistenza stessa del Tibet e del suo popolo come entità distinta, culturalmente, linguisticamente e religiosamente, a favore degli Han, il gruppo etnico maggioritario al 92% nella Repubblica Popolare Cinese”.
La presa di posizione dei tibetologi sembra aver spiazzato i responsabili del Musée du quai Branly. Pur dichiarando che le accuse nei suoi confronti sono “infondate” e assicurando di “lavorare in totale indipendenza”, Anne-Solène Rolland, direttrice del patrimonio e delle collezioni del museo, ammette alcuni errori in una e-mail inviata a Le Monde: “Riconosciamo una certa goffaggine nel modo in cui presentiamo il Tibet e verrà corretta. Il Tibet appare tra parentesi nei nostri cartelli, dando l’impressione che sia un termine geografico e storico secondario. Non è affatto così, toglieremo le parentesi e indicheremo più chiaramente che gli oggetti provengono dal Tibet”. Alla fine, il Musée du quai Branly ha deciso di andare oltre: il nome “Xizang” sarà semplicemente rimosso.
Sospetti di collusione con la Cina
La ridenominazione delle sale del Guimet “Nepal-Tibet”, recentemente ribattezzate “Mondo Himalayano”, pone un duplice problema, politico e culturale: la riorganizzazione di queste sale ha coinciso con l’avvio delle celebrazioni per l’anniversario del riconoscimento della Cina comunista da parte del generale de Gaulle nel 1964, culminate nella visita del presidente Xi Jinping a Parigi a maggio. Da qui il sospetto di collusione tra la direzione del museo e il regime cinese. “Le nostre istituzioni vogliono preservare a tutti i costi il loro accesso ai campi di ricerca, alle fonti e agli archivi cinesi, e beneficiano della generosità finanziaria e dei prestiti di oggetti museali che dipendono dalla benevolenza del regime cinese”, accusa la signora Buffetrille.
Queste insinuazioni sono state fermamente smentite dal presidente del Musée Guimet, Yannick Lintz, in una e-mail inviataci. “La denominazione della sala “Mondo himalayano” fa parte di un processo che si applica a tutte le sale del museo. L’intento è quello di presentare le nostre collezioni per aree culturali e di civiltà, al fine di rendere più chiara e comprensibile ai non addetti ai lavori la coerenza culturale di alcune regioni asiatiche. Alcuni vogliono vedere in questa scelta una grande cospirazione. È un’assurdità! Per la signora Buffetrille, “il mondo himalayano va inteso nel senso culturale del termine, e non nel senso geografico della sola catena montuosa. Nella storia dell’arte si stabiliscono zone di coerenza culturale, ed è questo che vogliamo aiutare la gente a capire”.
Ma le affermazioni del presidente del Guimet non convincono gli esperti: “I tibetani non si considerano di cultura himalayana”, afferma il linguista Nicolas Tournadre, uno dei maggiori specialisti di lingue tibetane. L’uso del termine “Himalaya” è un modo spiccio per eludere il riferimento allo Stato tibetano, un tempo potente. Tuttavia, le pendici settentrionali della catena himalayana costituiscono solo il confine meridionale del Tibet, che è attraversato da est a ovest da numerose altre catene montuose alte più di 7.000 metri. D’altra parte, alcune popolazioni a sud dell’Himalaya hanno adottato molti elementi della cultura tibetana, come i Ladakhi [in India], gli Sherpa [in Nepal] o i Sikkimesi [in India]: sono spesso chiamati “Bhoti”, che deriva dalla parola “Bod”, ‘Tibet’ in tibetano”.
Il tibetologo Fernand Meyer è d’accordo: “Dal momento che il Musée Guimet non si fa problemi a parlare di buddismo tibetano, sarebbe strano ridurlo al solo buddismo himalayano!”, ironizza l’ex titolare della cattedra di Sciences et civilisation du monde tibétain all’Ecole pratique des hautes études. Contrariamente a quanto pensa la signora Lintz, “il ‘mondo himalayano’ non è un’entità culturalmente definibile in quanto tale. In realtà, si tratta di una zona in cui si incontrano le aree culturali dell’India e del Tibet. Ridurre quest’ultimo alla sua frangia meridionale, geograficamente himalayana, non rende quindi giustizia alla storia e all’estensione di una cultura specificamente tibetana”.
Di Bruno Philip
Le Monde – 26 settembre