24 novembre 2024
Piango di dolore per l’amato Tibet
di Marco Ventura
Esce una biografia di Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama, attesa in Italia per una serie di incontri. Vive lontano dal suo paese, oggi parte della Cina
“E’ completamente chiuso, tagliato fuori da tutto; il mondo non si accorge della nostra sofferenza, dei cittadini che si autoimmolano.
Aspettiamo e speriamo: solo questo facciamo”
FORMATO TESTO
Nata nel 1940 a Lhasa, allora capitale del Tibet indipendente, Jetsun Pema è la sorella del Dalai Lama, la più alta autorità del buddhismo tibetano. Responsabile dei progetti educativi per i tibetani fuggiti in seguito all’occupazione cinese, in particolare dei celebri Tibetan Children’s Village, ministro dell’Educazione nel governo in esilio, la «Madre del Tibet» è una figura di riferimento per i 150 mila tibetani fuori del Paese, per i milioni di tibetani sottoposti alla repressione cinese e per chi nel mondo è sensibile alla loro causa. Il 18 aprile scorso ha ricevuto il Pearl S. Buck Award in Virginia. Ha pubblicato la propria autobiografia con Gilles van Grasdorff in francese nel 1996 (Tibet mon histoire, Éditions Ramsay) e in italiano nel 1998 (Tibet, la mia vita, Armenia). Piero Verni, già autore di una biografia del Dalai Lama, le dedica la «biografia autorizzata» intitolata Amala (Ubiliber). Il volume è aperto da una prefazione di Claudio Cardelli ed è chiuso da una ampia bibliografia e da una cronologia della vita della protagonista e della storia tibetana. Alla vigilia del suo viaggio in Italia, dove presenterà il volume in varie città, Jetsun Pema dialoga online con «la Lettura» collegata da New Delhi.
Circa la vostra denuncia dell’oppressione cinese del popolo tibetano, della sua cultura e della religione, lei ha dichiarato all’autore della biografia: «Il tempo è quasi finito, è importante che qualcosa accada finché Sua Santità il Dalai Lama è ancora in vita».
«Sua Santità compirà 90 anni l’anno prossimo. Io ne compirò 85. Ci resta poco tempo. Speriamo che qualcosa possa accadere entro un paio d’anni».
Dal 2010 non vi sono più stati contatti ufficiali tra i rappresentanti di Sua Santità e il governo cinese.
«Esatto».
Avete segnali dalla Cina che possa profilarsi qualche cambiamento?
«Tutti i tibetani sperano che possa esserci qualche cambiamento. Come dice sempre Sua Santità, spera per il meglio e preparati per il peggio. Finché hai speranza nella vita, è una cosa positiva. Per noi tibetani è sempre bene essere ottimisti e sperare che qualcosa accadrà nel futuro, anche nel prossimo futuro».
È un atteggiamento da ricondurre al buddhismo?
«Noi buddhisti crediamo che il fatto di essere nati come esseri umani sia un dono molto prezioso. Che dobbiamo usare nel modo migliore. Crediamo anche nella rinascita, naturalmente. In questa vita ci prepariamo per la prossima. E speriamo che qualcosa di buono accada. Dobbiamo fare il meglio con la nostra vita, renderla significativa».
Lei è nata nello stesso anno in cui suo fratello si è insediato sul trono di Lhasa. Cosa vuol dire per lei?
«È un grande privilegio. E una grande responsabilità».
Cosa ha significato nella sua vita avere un fratello così importante?
«Non ho mai considerato Sua Santità come mio fratello. Quando ero bambina lui abitava già nel Potala (la residenza ufficiale dei Dalai Lama a Lhasa, ndr). Quando andavo a trovarlo con i miei genitori notavo il loro grande rispetto per lui. Fin da bambino rappresentava qualcosa di speciale, di alto. È la mia guida spirituale».
Dopo una lunga separazione, vi incontraste nel 1959 a Siliguri, in India. Lei viveva in India da tempo. Sua Santità era appena riuscito a fuggire da Lhasa durante la rivolta repressa nel sangue dai cinesi. Cosa ricorda di allora?
«Dopo un viaggio travagliato era riuscito ad attraversare il confine. Alla stanchezza si univa la depressione per quelle tragiche circostanze. Aveva solo 24 anni, io ero ancora una studentessa. Ero felice che fosse ancora vivo, ma la situazione era molto triste. Aveva dovuto lasciare tutto alle spalle, era un rifugiato in India. Ero preoccupata per lui e per il nostro futuro».
Il Tibet è la causa della sua vita.
«Migliaia di tibetani seguirono Sua Santità in esilio. La sua preoccupazione divenne occuparsi di loro. Si assunse una grande responsabilità. E io sentii che dovevo a mia volta assumermi la responsabilità di servire la causa tibetana e di rendermi utile in ogni modo possibile».
Nacque così la missione educativa?
«Sua Santità incaricò la mia sorella maggiore di occuparsi dei bambini. Dopo 4 anni lei morì. Io ero tornata dal mio periodo di studio in Europa e in America. Sua Santità mi chiese di prendere il suo posto. Accettai con grande umiltà».
Lei poté tornare in Tibet solo nel 1980 per una breve visita sotto la stretta sorveglianza delle autorità cinesi. Come fu visitare Takster?
«Non ero mai stata a Takster, il villaggio da cui proveniva la mia famiglia. La visita mi fece tornare alla memoria i racconti che avevo ascoltato da mia madre sulla loro vita in quei luoghi. Nel 1980 tutto era cambiato. Erano rimaste solo cinque famiglie tibetane, le altre erano tutte cinesi. Il governo aveva demolito la casa di famiglia per costruire al suo posto un nuovo edificio. Fu un’esperienza emotivamente difficile e fu triste vedere l’estrema povertà della gente nel villaggio».
Com’era la situazione nel resto del Paese che le fu consentito visitare?
«Le condizioni erano terribili ovunque in Tibet. Nessuna famiglia era stata risparmiata dalle uccisioni o dalle deportazioni. Non dimenticherò mai i tre mesi di quel viaggio. Non vi fu giorno in cui non piansi».
Fu anche testimone della devastazione dei monasteri.
«Vidi che uno dei più grandi monasteri dell’Amdo era stato raso al suolo. Non restava una sola pietra. Al suo posto c’erano campi di senape».
Che notizie avete oggi da chi abita oltre quella che chiamate la «cortina di bambù»?
«Nessuna notizia. Il Tibet è completamente chiuso. Nessuno riesce a uscire o a tornare. Nemmeno i tibetani con passaporto italiano o americano, o di un altro Paese occidentale. Non possono nemmeno visitare il Paese. Specialmente il Tibet centrale. Il Paese è tagliato fuori».
Dal 2009 avete contato 169 casi di tibetani che si sono dati fuoco per protestare contro l’occupazione cinese. Si tratta di donne, uomini, monaci, laici, anziani, giovani e anche adolescenti.
«Si autoimmolano perché sono disperati. Attenzione però: non hanno distrutto nulla, si sono solo autoimmolati. Noi vogliamo solo che Sua Santità possa tornare in Tibet».
Come giudica questa «stagione delle autoimmolazioni»?
«Questo autosacrificio è davvero preoccupante. In quanto buddhista l’autoimmolazione è qualcosa che puoi fare soltanto in caso di estrema disperazione. Altrimenti toglierti la vita è contro la nostra religione. Ma queste persone non hanno altro da dare, solo la loro vita, perché la comunità mondiale si accorga della gravità della situazione. Ci rattrista molto che questo accada, anche perché il mondo non sembra accorgersene. Ma continuiamo a sperare».
Vi sentite soli nella vostra lotta?
«La Cina è un Paese molto potente. Noi siamo una piccola manciata di persone. Non siamo in grado di mandare il nostro messaggio in modo che la comunità mondiale ascolti cosa sta accadendo in Tibet. Ma andiamo avanti».
Teme che il governo cinese possa interferire nel riconoscimento del prossimo Dalai Lama?
«La Cina non crede nella religione. I comunisti non credono nella religione. La reincarnazione, invece, è connessa con la nostra religione. Il riconoscimento riguarda il buddhismo. Non ha niente a che vedere con i cinesi».
In quanto membro della famiglia del Dalai Lama lei avrebbe dovuto condurre una vita monastica. Invece si è sposata, ha avuto incarichi pubblici, è stata ministro. Perché?
«Mia madre mi ha sempre detto: hai ricevuto un’educazione e devi pensare per tuo conto, la tua vita è nelle tue mani. Come dice il Buddha: sei il padrone di te stesso. Ho sempre sentito che, anzitutto, dovevo fare qualcosa per aiutare Sua Santità e la causa tibetana. Dopodiché, la mia vita è la mia vita e devo viverla come voglio viverla. Del resto, Sua Santità ci ha dato la democrazia, dobbiamo sfruttare la libertà che viene con essa».
Che cosa la spinse ad accettare un ruolo nel film «Sette anni in Tibet», uscito nel 1997?
«Il regista Jean-Jacques Annaud mi chiese di partecipare nel ruolo di mia madre. Volli vedere uno dei suoi film. Vidi L’orso e mi fece un’ottima impressione. Riscontrai in esso la presenza di insegnamenti buddhisti. Così accettai. I miei fratelli mi dissero: vai, sii nostra madre». Come fu recitare accanto a Brad Pitt? «Non avevo mai recitato. Annaud fu sempre gentile e comprensivo. Quando mi vedeva nervosa sul set mi diceva sempre: fa’ quello che tua madre avrebbe fatto e tutto andrà bene».
Il film fu girato in Argentina.
«I costumi, le scene… per tutti noi tibetani sul set fu come tornare nel passato. Mi fece piacere rivivere il Tibet di un tempo. Fu una splendida esperienza che ha arricchito la mia vita. Mi diede in qualche modo un senso profondo di come era il Tibet, di come vivevano i tibetani».
Il buddhismo sembra tenere molto alla tradizione, ma anche alla scienza. Cosa pensa in proposito?
«Per me il buddhismo è un modo di vivere. È come vivi la tua vita. Sua Santità dice sempre che bisogna sviluppare una mente analitica. Provare ad analizzare ogni cosa e vedere la realtà delle cose. Questo è il buddhismo: vedere la realtà delle cose. Per fare ciò serve una mente acuta, bisogna saper osservare da diverse prospettive. Questo ci insegna il buddhismo. La cosa principale è come scoprire la realtà delle cose, da ogni angolo. Allora hai la prospettiva che ti serve e questo è così importante nella vita. Devi sapere i pro e i contro».
Sua Santità ama incontrare gli scienziati, dialogare con loro.
«Tutto deve essere chiaro nella tua mente. Questo è un modo logico, scientifico. Per questo il buddhismo e la scienza hanno molto in comune, come Sua Santità dice sempre. Il buddhismo ha molto a che vedere con la mente, con il suo funzionamento profondo. Con la scienza della mente».
Come sente il suo ruolo di donna e di leader per il mondo?
«Come un esempio per altri, nella misura in cui sei in grado di usare la tua libertà, la tua intelligenza, di fare qualcosa che valga la pena, di rendere piena di significato la vita. In quanto donne abbiamo molte responsabilità. Anche da madri. Sua Santità sottolinea sempre l’importanza dell’essere madre. Il ruolo della madre è tanto importante per i bambini e i bambini sono il futuro del mondo».
La biografia si intitola «Amala». «Amala» significa madre, vero?
«Sì, ma ora non sono più Amala, madre, sono Mola, nonna!». (Ride)
Torniamo alla reincarnazione, per favore. Può spiegare cosa succederà? Sua Santità sarà in grado di guidare la sua propria reincarnazione?
«È la domanda che si fanno in tanti. In tanti cercano di rispondere. Ma sta solo a Sua Santità rispondere. L’anno prossimo compirà 90 anni, speriamo che guidi cosa dovrà accadere. Sta ancora bene, dopo l’operazione al ginocchio può camminare molto meglio. È molto attivo. Vedremo cosa farà. La decisione in merito alla reincarnazione spetta a lui. E a nessun altro».
Intervista di Marco Ventura
La Lettura
Corriere della Sera
24 novembre 2024