7 febbraio 2011. Nei giorni scorsi la stampa indiana ha dato ampio risalto a quello che ormai è definito “l’affaire Karmapa” e alle sue implicazioni sia politiche sia strettamente giuridico-finanziarie (nella foto, l’eloquente copertina di India Today). Si è detto di tutto e non sempre in modo approfondito e obbiettivo. In attesa di un chiarimento dell’intera vicenda, pubblichiamo l’articolo apparso il 1° febbraio sull’Hindustan Times, a firma del giornalista Dibyesh Anand, che analizza la vicenda senza emettere giudizi affrettati e tiene conto del contesto religioso e culturale del mondo tibetano.
IL BUDDHA NON SORRIDE
“Il Karmapa è una spia cinese?”, “Il possibile successore del Dalai Lama è una talpa cinese?”, “Ci troviamo di fronte all’ennesima scaltra macchinazione della Cina per assicurarsi il controllo delle zone di confine?”. I media sono letteralmente impazziti nel rilanciare i dubbi sulla figura del Karmapa. Purtroppo quanto è stato scritto e detto è rimasto molto in superficie e nessuno ha cercato di approfondire il discorso. Questo episodio non solo ci mostra come funzionino i media indiani ma dà anche un duro colpo alla fiducia dei tibetani nei confronti della democrazia indiana e danneggia gli interessi indiani di lungo termine in Tibet.
La polizia, nei suoi raid, ha trovato poche decine di milioni di rupie in valuta. Tutt’al più ci troviamo di fronte a un caso di irregolarità finanziarie o di affari poco trasparenti da parte degli amministratori del monastero del Karmapa. I colpevoli ne dovranno rispondere. Ma accusare una persona di essere una spia per conto di un paese straniero è una cosa molto seria. Ne distrugge la sua reputazione. Le notizie di questi giorni ci mostrano che è in atto una caccia alle streghe e tradiscono una totale mancanza di comprensione della vita dei tibetani in India.
Ogyen Trinley Dorje è il XVII Karmapa, il lignaggio più antico del buddhismo tibetano, ed è il capo della scuola Karma Kagyu. E’ uno dei rari lama riconosciuto sia dal Dalai Lama sia dal governo cinese. Non c’è nulla di cospiratorio in tutto questo. Durante tutti gli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la Cina era più accomodante nei confronti delle figure religiose tibetane e, nella scelta delle reincarnazioni, si consultava e coordinava con il Dalai Lama e gli altri lama in esilio. Questa disponibilità venne meno con la crisi del 1995 a proposito della reincarnazione del Panchen Lama.
La scelta del nuovo Karmapa, dopo la morte del XVI, non fu priva di controversie. Esiste infatti un candidato rivale, Trinley Thaye Dorje, che ha l’appoggio dello Shamarpa, un rilevante personaggio della scuola Karma Kagyu. Lo Shamarpa è noto per avere stretti rapporti con i servizi di sicurezza e la burocrazia indiana. Ma molti tibetani hanno accettato la scelta del Dalai Lama. Infatti, nel Tibet controllato dai cinesi, la venerazione per il Karmapa è seconda solo a quella per lo stesso Dalai Lama. Anche nei monasteri Gelug (la scuola cui appartengono il Dalai Lama e il Panchen Lama) è possibile vedere l’immagine del Karmapa ed è evidente che per i tibetani la vicinanza al Dalai Lama del Karmapa aggiunge sacralità alla figura di quest’ultimo.
E’ vero che il Karmapa ha evitato di fare dichiarazioni anti-cinesi e Pechino, di conseguenza, non l’ha mai denunciato. Ma ancora una volta in tutto questo non c’è niente di sospettoso. I cinesi si sono perfino rifiutati di criticare apertamente il Dalai Lama nel 1959, fino a quando non fece una pubblica dichiarazione dall’esilio. Pechino non vuole denunciare apertamente il Karmapa perché, se lo facesse, contribuirebbe a creare un’altra figura di prestigio attorno alla quale sicuramente si mobiliterebbe l’intero movimento internazionale che si batte per un Tibet libero. Inoltre c’è da aggiungere che, nella storia recente, i Karmapa hanno sempre evitato di assumere posizioni troppo politicizzate dal momento che, nello Stato tradizionale tibetano, la scuola Gelug era dominante. Nel concentrarsi unicamente sulle questioni religiose, l’attuale XVII Karmapa segue le orme della sua precedente reincarnazione. E’ triste che, senza saper interpretare le sottigliezze sia della politica delle varie scuole del buddhismo tibetano sia dei rapporti sino-tibetani, i media indiani abbiano ritenuto sospettosa la posizione apolitica del Karmapa. Le continue congetture sulla fuga del Karmapa dal Tibet nel 1999 mi ricordano un film giapponese che sosteneva la tesi della cospirazione: il Karmapa era stato mandato in Sikkim per riprendersi il “Cappello Nero” custodito nel monastero di Rumtek. E’ interessante notare che questo film mi venne dato proprio a Pechino.
Una decina di anni di repressione durante la Rivoluzione Culturale non hanno scalfito la fede che i tibetani hanno nei loro lama. Il furibondo attacco (onslaught, nel testo originale, N.d.T.) al Karmapa da parte dei media indiani non farà che rafforzare il rispetto dei tibetani per lo stesso Karmapa. Ma, certamente, provocherà anche danni all’India, dal momento che i fedeli del buddhismo tibetano in esilio, nelle regioni di confine, in Tibet e nel resto del mondo proveranno risentimento per questa umiliazione inferta a un loro leader religioso. Se si fosse trattato dello Shahi Imam (l’imam della grande moschea di Delhi, la Jama Masjid, di fatto il capo dei musulmani indiani, N.d.T.) o di Baba Ramdev (un santo hindu del XIV secolo, N.d.T.) i media indiani si sarebbero presi la libertà di pubblicizzare una simile notizia non provata?
I funzionari cinesi più radicali sicuramente si staranno facendo ampie risate nell’assistere a questo circo mediatico indiano. Sanno bene che esso non solo provocherà confusione nella comunità tibetana in esilio in India ma creerà anche scetticismo tra i tibetani all’interno della Cina. L’India ha deluso i tibetani in molte occasioni a partire dalla fine degli anni ’40 quando i tibetani chiesero l’aiuto internazionale per rivendicare la loro indipendenza e, nel 1954, quando con l’Accordo del Panchsheel (i “Cinque principi di coesistenza pacifica” tra India e Repubblica popolare cinese, N.d.T.) siglato con la Cina venne sacrificato il vecchio Stato tibetano. L’India ha offerto asilo a più di 100.000 tibetani. Ma va ricordato che i lama in esilio garantiscono stabilità e mantengono pacifiche le popolazioni che abitano le regioni di confine in maniera molto più efficace di quanto non faccia lo stesso esercito indiano. I tibetani eccedono in generosità nell’essere grati al loro ospite indiano ed evitano di ricordare all’India una piccola scomoda verità: fino al 1951, le zone di confine oggi oggetto della disputa tra India e Repubblica popolare cinese, non erano né indiane né cinesi ma tibetane. In cambio di tutto questo, il minimo che gli indiani possano fare sarebbe quello di non denigrare i leader religiosi tibetani prima ancora che le loro eventuali colpe vengano provate. E’ chiedere troppo?
Di Dibyesh Anand
Hindustan Times – 1 febbraio 2011
Traduzione dall’inglese di Carlo Buldrini