LE RIVOLUZIONI “COLORATE” DEL MEDIO ORIENTE E I TIMORI DI PECHINO

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Washington, 22 febbraio 2011 (AsiaNews/TJF). Ci sono poche possibilità che una “rivoluzione colorata” (appellativo attribuito dai media internazionali e dai soggetti coinvolti ad una serie di movimenti simili e correlati tra di loro) simile a quella esplosa in Egitto possa diffondersi in Cina nel breve periodo. Eppure questa rivoluzione ha riaffermato l’evidente mancanza di fiducia del Partito comunista cinese, dato l’enorme sforzo profuso per minimizzare gli eventi drammatici avvenuti in Tunisia, Egitto, Giordania e Yemen e i possibili effetti a catena che potrebbero avere in Cina (nella foto un dimostrante arrestato a Shanghai il 20 febbraio).
 

Oltre a controllare il modo in cui sono state coperte le notizie provenienti dalla “Rivoluzione del gelsomino” egiziana, le autorità cinesi stanno cercando di dirottare il dibattito verso la “inapplicabilità” del “modello democratico occidentale” nelle nazioni in via di sviluppo. I maggiori dirigenti comunisti – incluso il premier Wen Jiabao – stanno facendo di tutto per convincere le classi disagiate della Cina che Pechino spenderà molto di più in benefits di benessere sociale, in parte (e in maniera ostentata) per calmare le agitazioni popolari.

Se la leadership comunista dovesse fallire nel rispondere alle ferite presenti da tanto tempo – come un calmiere della forbice fra ricchi e poveri e la mancanza di libertà di espressione per la popolazione – non si può escludere del tutto che la parte più svantaggiata dei cittadini si decida ad emulare tunisini ed egiziani. Pechino, che nel periodo delle rivolte ha festeggiato i sette giorni tradizionali di feste per il Capodanno lunare, non ha risposto ai corrispondenti stranieri che chiedevano un commento sulle insurrezioni in Africa e su una possibile “imminente” emulazione delle stesse in Cina. Tutto quello che il portavoce del ministero cinese degli Esteri Hong Lei ha detto sull’argomento è stato: “Noi speriamo che l’Egitto possa al più presto possibile restaurare la propria stabilità sociale e l’ordine normale delle cose”.

Nonostante ciò, le autorità hanno deciso alla fine di gennaio misure risolute per restringere la copertura mediatica delle “rivoluzioni colorate” in Africa settentrionale e Medio Oriente, e per bandire questi argomenti dai social network e dai siti di micro-blogging. Il Dipartimento per la propaganda ha comunicato ai redattori degli organi di stampa l’obbligo, sull’argomento, di usare soltanto i dispacci dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua. Inoltre, a blogger e utenti internet cinesi non è stato permesso di parlare di Egitto sui siti in Cina equivalenti a Facebook o Twitter. Le ricerche correlate all’argomento su siti come Sina.com, Netease.com e Weibo si sono risolte con “nessun risultato” o messaggi di errore. E tutto questo nonostante il fatto che ormai una buona parte dei 450 milioni di utenti internet cinesi abbia software in grado di scavalcare i firewall della censura e siano riusciti così a leggere delle rivoluzioni sui media stranieri.

Pechino e Il Cairo sono simili

L’amministrazione di Hu Jintao ha deciso di distogliere l’attenzione pubblica concentrandosi sulla rapidità e l’efficienza con cui Pechino è riuscita, tramite voli charter, a riportare a casa migliaia di cinesi (inclusi turisti da Hong Kong) che si trovavano in varie città dell’Egitto. Ma soprattutto, i commentatori ufficiali si sono concentrati sulle presunte crepe dei sistemi democratici di stile occidentale. Un editoriale del Global Times ha sottolineato che le istituzioni e le leggi americane ed europee hanno “avvelenato” le popolazioni africane e mediorientali. Il Times, che è un’emanazione del Quotidiano del Popolo, scrive: “Le rivoluzioni colorate non portano verso una vera democrazia. Questa ha una forte carica attrattiva perché è un sistema di applicazione efficace in Occidente, ma l’idea che possa essere applicabile in altre nazioni è molto dubbia. E ci sono sempre più esempi a favore di questa teoria”.

Altri accademici ed esperti si sono soffermati sul fatto che – data la relazione di semi-alleanza esistente fra Egitto e Stati Uniti – le sollevazioni del Cairo siano semplicemente un problema per gli interessi americani in Medio Oriente. Come prova, Li Shimo, esperto di relazioni internazionali con base a Shanghai, ha notato che se dovessero avvenire elezioni veramente libere in Egitto e nelle nazioni confinanti, le urne potrebbero coronare come leader musulmani che non solo non vogliono la democrazia di tipo americano, ma potrebbero minacciare le riserve petrolifere americane. Su Huanqiu ha scritto: “Dalla Rivoluzione iraniana in poi, quasi tutte le elezioni democratiche avvenute nel mondo islamico hanno prodotto governi islamici contrari all’Occidente e a Israele”. È interessante notare come Pechino abbia anche obiettato ai presunti tentativi di Washington di sostenere le dimostrazioni pro-democrazia in Iran nel 2009. Il quotidiano ufficiale China Daily in un suo editoriale ha affermato a suo tempo che “i tentativi di sostenere le cosiddette rivoluzioni colorate in Iran si dimostreranno molto pericolose. Nessuno ha interesse a vedere un Iran destabilizzato, soprattutto se si vuole mantenere la pace e la stabilità in Medio Oriente e nel mondo circostante”.

Tuttavia, un qualificato numero di intellettuali cinesi hanno attirato l’attenzione sul fatto che – al di là dell’elemento “interferenze esterne” – esistono delle similitudini fra Cina ed Egitto nel campo dei molteplici problemi che affliggono le classi inferiori. Il famoso commentatore e blogger Sima Nan ha notato come “i problemi sociali della Cina non sono inferiori a quelli egiziani”. Sima ha poi indicati come in alcune aree – costo della vita, prezzo degli immobili, rette sempre più alte per le cure mediche e l’istruzione, corruzione della classe politica – la scintilla che potrebbe convincere i cinesi ad emulare gli egiziani “non è poi così lontana”. Yuan Weishi – storico presso l’università Zhongshan di Guangzhou – sottolinea che “se l’economia dovesse rallentare, la Cina sarebbe teatro di nuove proteste sociali di massa, caratterizzate da un diffuso malcontento contro il governo. La popolazione cinese ha oggi una forte consapevolezza dei propri diritti, e non ha intenzione di tornare indietro a quei tempi in cui era un semplice oggetto nelle mani dei vertici senza neanche il diritto di critica”.    Nel tentativo evidente di mettere in stallo le proteste sociali, nelle ultime settimane la leadership del Partito comunista cinese si è fatta vedere impegnata nella “vicinanza alle masse” attraverso personalità dirigenti di alto livello.

Il premier Wen ha compiuto lo scorso mese una visita all’Ufficio statale per le lettere e le petizioni per parlare con quei cittadini arrabbiati che cercavano di presentare lamentele contro i governo di vari livelli presenti in Cina. Wen ha detto ai presenti: “Il nostro potere si fonda e si basa sul popolo. Dovremmo usare il nostro potere per cercare di portare beneficio alla popolazione, e dovremmo affrontare con responsabilità le difficoltà che le masse affrontano ogni giorno”. È stata la prima volta in assoluto che un alto dirigente comunista abbia parlato con i questuanti, che sono invece maltrattati con regolarità e persino imprigionati dalla polizia cinese o dal personale di sicurezza delle varie agenzie. Durante le feste del Nuovo Anno lunare, Wen e il presidente Hu si sono mescolati alle masse durante i tour di ispezione nelle province dell’Hebei e dello Shandong. Entrambi i leader hanno assicurato che il governo presterà più attenzione alla qualità della vita della popolazione, soprattutto nei periodi di inflazione.

Gli aiuti e la repressione

I giornali ufficiali hanno “pompato” moltissimo le spese per la sicurezza sociale decise nel 12mo Piano quinquennale (che copre il periodo dal 2011 al 2015). Per esempio gli aumenti per i sussidi di disoccupazione e delle pensioni, o altri benefici che partiranno a metà del decennio attuale per contrastare il tasso inflattivo. Per rispondere alle ansie crescenti e diffuse relative alla bolla immobiliare, nei prossimi cinque anni il governo centrale si è impegnato a costruire case a basso costo e sovvenzionate. L’obiettivo per il 2011 è quello di costruire 10 milioni di appartamenti sovvenzionati, un aumento pari al 70% rispetto lo scorso anno. Oltre all’aumento record del 22,8% per i salari minimi deciso lo scorso anno, diverse municipalità hanno annunciato un ulteriore crescita pari al 15% per aiutare i lavoratori a fare i conti con il costo della vita che nelle città aumenta in modo vertiginoso. Mentre il tasso ufficiale di prezzi al consumo è cresciuto del 4,6% lo scorso anno, molti economisti cinesi stimano che il prezzo degli alimentari sia schizzato almeno del 10%. Anche se il fattore è in parte imputabile alle pessime condizioni climatiche che hanno colpito il Paese, per il governo sarà dura fermare la spirale verso l’alto che ha avvolto i prezzi di riso, grano, verdura e carne.

Tuttavia è molto significativo il fatto che, per cercare di fermare le proteste sociali, la leadership comunista non sembra intenzionata ad andare oltre gesti pubblici di facciata. Prendiamo per esempio il breve incontro del premier Wen con gli otto questuanti che hanno presentato al primo ministro petizioni legate alla confisca illegale delle proprietà da parte delle autorità locali. Anche se i media ufficiali hanno riportato che agli otto questuanti è stato concesso un incontro con dirigenti governativi di alto livello, la maggior parte dei loro problemi non è stata risolta. I dirigenti sono arrivati a dire che quelle otto persone non hanno detto la verità. Come ha sottolineato Hu Xingdou, professore di Scienza e Tecnologia dell’università di Pechino, il fenomeno dei questuanti in sé dimostra i gravi problemi istituzionali quali l’inefficacia del sistema legale e di quello giudiziario: “L’unica soluzione al problema dei questuanti è l’indipendenza del potere giudiziario, così da poter garantire un adeguato controllo sui vari livelli di governo”.

Per Liu Junning, analista politico, la crescita del potere popolare in Medio Oriente mette in luce la “crisi dell’autoritarismo” anche in Cina. “Le autorità devono lanciare profonde riforme sociali e sistemiche in campo politico. Passi come quello di aumentare i fondi per il welfare sociale sono semplici misure temporanee, che si fermano alla superficie”. Liu, tuttavia, non intravede nel Partito comunista alcun segno che faccia pensare a un ripensamento di questo tipo. Egli e altri osservatori pensano che la leadership di Hu Jintao stia solo rinforzando il già formidabile apparato di pubblica sicurezza, così da bloccare ogni elemento destabilizzante e “disarmonico” nella società.

Nel 2005 si è verificata una rivoluzione “colorata” nel confinante Kyrgyzstan, che condivide una linea di terra con la provincia settentrionale cinese dello Xinjiang. A causa di ciò, il presidente Hu ha emanato un ordine per controllare dissidenti e organizzazioni non governative presenti in Cina, in modo particolare quelle che mantengono contatti con elementi occidentali. Da allora, diverse migliaia di persone fra dissidenti, avvocati per i diritti umani e attivisti delle ONG sono stati arrestati o molestati. Per tutta la nazione sono stati installati equipaggiamenti ad alta tecnologia. Ad esempio, nella provincia meridionale del Guangdong è stato montato un milione di telecamere, e altre 50mila nella sola Urumqi, capitale dello Xinjiang.

Nell’evidente tentativo di persuadere le masse a non soccombere ai proverbiali “proiettili rivestiti di zucchero” dell’Occidente capitalista, un gruppo di intellettuali patriottici ha riproposto il tema della “cospirazione occidentale” che cerca di minare la crescita della Cina attraverso metodi che spaziano dal contenimento militare alla diffusione degli ideali democratici. Ad esempio Yu Wanli, docente di Affari internazionali presso l’università di Pechino, ha scritto un articolo dal titolo “Aumentare le paure in Cina è una strategia americana”; nel testo afferma che Washington usa armi tra cui “il proprio sistema di valori e un maggior potere soft” per screditare la Cina. Zhou Jimo, ricercatore al Centro cinese per gli scambi economici internazionali, ha sottolineato che “le nazioni occidentali faranno di tutto per fermare l’economia cinese”.

Resta da vedere, tuttavia, se l’offensiva propagandistica del Partito comunista cinese, in aggiunta al sistema del bastone e della carota – praticato e testato da molto tempo e che prevede un miscuglio di aiuti economici e di misure repressive – potranno tenere lontani dalla Cina i venti del cambiamento che stanno soffiando dall’Africa e dal Medio Oriente.

 

 

Di Will Lam – Fonte: AsiaNews