di Giampaolo Visetti
Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d’ufficio. Scomodo, nel caso di un’urgente necessità, ma accettabile dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all’improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile. Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall’improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell’ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d’acqua lasciate a metà. Due agenti, ai suoi fianchi, sorridono e scrutano il muro. Un terzo aziona una telecamera e ci tiene a mostrare lo zelo con cui riprende le “lezioni di comportamento agli amici giornalisti occidentali”. Non ce l’hanno con me. Sono uno qualsiasi tra le centinaia di convocati “per comunicazioni urgenti” nelle ultime ore. Il funzionario legge le istruzioni su un gobbo. Premette: “Quella che voi chiamate rivoluzione dei gelsomini in Cina non c’entra e non è oggetto di questo amabile colloquio. E poiché non sappiamo cosa sia, non sono autorizzato a parlarne”.
I poteri autoritari, quando smarriscono la certezza della loro onnipotenza, optano per l’assurdo. Esibiscono un’efficienza ignota alle democrazie, ma incapace di respingere l’urto della semplicità, che inesorabile abbandona i loro atti. Sono due settimane che il Paese più stabile e controllato del pianeta lotta contro l’anonimo annuncio informatico di una rivoluzione priva di insorti. Può apparire strano: ma più la leadership si accerta che non uno si oppone, nemmeno in Internet, e più si convince che non può essere così. Per rispondere di tale inaccettabile evidenza, in quanto soggetto a forze ostili, trascorro con la polizia di Pechino questa mattina che forse anticipa, anche in Asia, una casuale primavera. Nessuno osa pensare all’ipotesi che le “passeggiate per la democrazia”, ogni domenica alle 14 nel cuore delle più importanti città, possano con le settimane raccogliere un numero crescente di appassionati dell’andare a zonzo in silenzio.
Per il funzionario che mi ha svegliato alle sei e trenta il problema è questo: non deve succedere che domenica prossima, mentre sono annualmente riunite l’Assemblea Nazionale del Popolo e la Conferenza Consultiva del Popolo Cinese, migliaia di persone si mettano a bighellonare insieme nello stesso luogo di cento città della Cina. O meglio. Spiega che se camminare equivale a protestare, allora anche Wen Jiabao si oppone a se stesso. Il suo compito è che, qualsiasi cosa accada, nessuno ne parli. Gli viene il dubbio di aver esagerato e si corregge: l’autorizzazione di tre giorni per interpellare, filmare o fotografare un cinese sarà obbligatoria solo in una serie di “luoghi sensibili”. Inizia a leggere un elenco di molti fogli: piazza Tienanmen e Wang Fujing a Pechino, piazza Renmin e il Bund a Shanghai, e qui si ferma certo che il resto della Cina in Occidente risulti ignoto. Sta dicendo che, come nel 1989 e mentre al posto dei carri armati per le strade circolano Audi blu, il motore economico del mondo riprecipita, senza una ragione, nel coprifuoco. Potrò guardare le vetrine su Jianguomennei Dajie, ma non quelle un passo più in là. Dovrò fingere di non conoscere un vicino di casa davanti al mausoleo di Mao, ma sarà lecito cenare insieme a lui attorno al lago di Houhai. La domanda su come regolarsi nel caso sia un cinese a rivolgere la parola ad uno straniero, interrompe la lezione. “Lo vede – dice il funzionario – sono i giornalisti succubi dell’America che vogliono trasformarsi nella notizia e diventare una rivoluzione, per farsi pagare immagini che essi stessi animano”.
La tesi è che la “rivoluzione dei gelsomini”, che dovrebbe infettare la Cina con il virus libertario che ammorba il Mediterraneo, sia l’accademico show del club dei corrispondenti in crisi d’astinenza. Dunque: no giornalisti no insurrezione. Non che abbia solo torto: ma basta un cameraman per espugnare la Città Proibita? “Voi che vivete qui – legge il funzionario – dovreste invece collaborare con le autorità a mantenere l’ordine”. Un’obiezione lo ferma. Perché, se i cinesi non desiderano diritti, libertà e giustizia, ma solo soldi, Internet da giorni è diventato inaccessibile, centinaia di persone sono state arrestate, il Paese è occupato dai soldati ed è stato censurato perfino il video in cui il presidente Hu Jintao intona la canzone popolare “Ma che bel fiore di gelsomino”? E perché io adesso sono qui? Entra nell’ufficio un uomo gonfio, in tuta da ginnastica nera, con gli occhi al pavimento e una borraccia rossa in man. È lo stesso che domenica scorsa mi ha pedinato per tre ore a Wang Fujing, che da giorni si addormenta ubriaco fuori di casa mia. “Per un po’ di tempo – sorride il funzionario mentre mi congeda – sarà il suo assistente. Se ha problemi, si rivolga a lui”. La Cina pensa che la stabilità della sua contemporanea dinastia possa essere minata solo da una forza estranea, scatenata lontano. E se lo pensa, significa che lo sa.
Giampaolo Visetti
Fonte: La Repubblica.it, 3 marzo 2011