Lobsang Sangay sostituisce il Dalai Lama alla guida politica del Tibet

di Enrica Garzilli

(Il Fatto Quotidiano, 8 Agosto 2011)

 

Lobsang Sangay, 43enne tibetano, Research Fellow al dipartimento di giurisprudenza di Harvard, ha prestato giuramento nel tempio Tsuglagkhang, a Dharamsala, in India, diventando ufficialmente il terzo primo ministro del governo tibetano in esilio.
Sangay ha giurato alla presenza del Dalai Lama e davanti al capo dell’Alta corte tibetana Ngwang Phelgyal Gyechen, rimpiazzando Samdong Rimpoche come Kalon Tripa, cioè primo ministro della Amministrazione Centrale Tibetana. Il giorno è particolarmente fausto perché, come ha ricordato Sangay nel suo primo discorso ufficiale , oggi si celebra la nascita del venerato Guru Rinpoche, il grande yogin ed esorcista che diffuse il buddhismo in Tibet.
Il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, premio Nobel per la pace 1989, ricopriva ambedue le cariche di capo di stato e capo religioso del buddhismo tibetano e della scuola Gelugpa ed era alla guida del governo di transizione. L’annuncio fatto agli inizi di quest’anno di volersi dimettere dal ruolo politico aveva causato molto nervosismo nel governo cinese, che è sempre stato chiuso al confronto, negando alla Regione Autonoma del Tibet la piena autonomia. Nel 2008 la Cina ha duramente represso le proteste scoppiate a Lhasa e nei monasteri della regione. Al tempo il governo cinese aveva accusato il Dalai Lama di orchestrare i disordini e di fomentare la violenza, affermando che faceva parte del piano di “sabotaggio separatista”. In realtà il Dalai Lama ha sempre predicato una lotta con mezzi pacifici per una reale autonomia della regione tibetana in seno alla Cina, la cosiddetta “via di mezzo”, e il rispetto dei diritti umani.
La decisione del Dalai Lama di dimettersi si è rivelata un’abile mossa politica nel timore che, se lui fosse venuto a mancare, la Cina avrebbe imposto un suo rappresentante a capo del governo tibetano. La tattica di Beijing infatti era ovviamente quella di rimandare il confronto con il 76enne capo dei tibetani e di sopravvivergli, così da avvantaggiarsi della frattura del movimento di resistenza, rimasta senza leader. A marzo il parlamento tibetano ha accettato formalmente la decisione del Dalai Lama e l’elezione di Sangay ha messo fine a secoli di governo teocratico.
Il timore che la Cina si approfitti del vuoto di potere lasciato da un’improvvisa scomparsa del Dalai Lama è ben fondato. Infatti prima del 1951 il Tibet era un paese essenzialmente libero e conservava la sua indipendenza amministrativa e la sua identità nazionale e culturale, pur ospitando a Lhasa un rappresentante della Cina. Il sistema politico si fondava sul Dalai Lama, capo religioso e capo del governo, il Panchen Lama, che aveva la giurisdizione culturale e aveva il compito, dopo la morte del Dalai Lama, di riconoscerne la nuova reincarnazione, altri lama di scuole meno influenti e un Consiglio di ministri. La Rivoluzione culturale cinese ha cercato con ogni mezzo di scardinare il sistema religioso tibetano e i governi successivi hanno portato avanti questa politica.
Il 14 maggio 1995 l’attuale Dalai Lama, fuggito a Dharamsala nel 1959, ha riconosciuto la reincarnazione dell’11esimo Panchen Lama nel giovane Gedhun Choekyi Nyima, classe 1989. L’annuncio unilaterale del Dalai Lama ha fortemente imbarazzato la Cina, che ha immediatamente nominato Gyaltsen Norbu reincarnazione del decimo Panchen Lama. Pochi giorni dopo la polizia cinese ha rapito il Panchen Lama legittimo, che aveva sei anni, e la sua famiglia. Gedhun è stato dichiarato dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani “il più giovane prigioniero politico della storia”. Da allora lui e la sua famiglia sono scomparsi, nonostante le ripetute richieste delle Nazioni unite di poterli incontrare. Non si sa dove venga segregato il ragazzo, che ora avrebbe 22 anni. Il governo cinese ha sempre asserito che “è sano e salvo ma desidera difendere la sua privacy”. La località dove si trova è uno dei segreti di Stato meglio custoditi.
Nel discorso inaugurale del suo insediamento, Sangay ha esplicitamente assicurato che il governo tibetano seguirà il sistema democratico e sarà rispettoso dei diritti umani, che trascendono il sesso, la religione e la razza, perché diventi uno stato realmente laico e secolare. Ha anche riaffermato fortemente l’impegno a far ritornare il Dalai Lama in Tibet e ha esortato la sua generazione a dedicarsi a questa causa e avere “unità e impegno per compiere sforzi instancabili… perché se lo facciamo vinceremo, se no mancheremo al nostro compito”. Conscio che l’obbiettivo “è di proporzioni himalayane”, ha esortato i tibetani a dare anche la propria vita, se necessario, per la riunificazione del Tibet indipendente. “Siamo stati tragicamente separati con la forza, non per scelta, e raggiungeremo la vetta della libertà di riunificare i tibetani da entrambi i lati dell’Himalaya” ha detto Sangay. “Il risultato di questa elezione dovrebbe mandare un messaggio chiaro ai più intransigenti del governo cinese che la leadership tibetana è ben lontana dallo scoppiare come una bolla di sapone – siamo una democrazia che diventerà solo più forte negli anni a venire. E siamo qui per rimanerci”.
Ricordando che i tibetani soffrono della mancanza di libertà, giustizia e dignità a causa del governo della Cina, e non del popolo cinese, ha detto che con il giuramento riafferma “l’aspirazione dei nostri padri, un trattato firmato oltre un millennio fa fra la Cina e il Tibet per affermare l’impegno che ‘i tibetani vivano felici nella terra del Tibet e i cinesi nella terra della Cina”. In pratica, un Tibet indipendente quindi.
“Oggi ci riuniamo nella sacra terra dell’India, dove il signore Shakyamuni raggiunse lo status di Buddha. La prossima volta di incontreremo nella sacra terra del Tibet, dove il buddhismo è nel cuore e nell’anima di sei milioni di tibetani” ha detto Sangay, ribadendo che il Dalai Lama deve tornare “alla città cui appartiene”, cioè Lhasa.
Un discorso durissimo quello di Sangay, che annuncia un futuro di lotte per il popolo tibetano. “La continua repressione politica, l’assimilazione culturale alla Cina, la marginalizzazione economica e la distruzione ambientale nel territorio del Tibet occupato sono inaccettabili”, dice Sangay “il sistema cinese non è socialismo ma colonialismo” e “Il 40% dei giovani tibetani che ha studiato è senza lavoro e le statistiche sono peggiorate dagli amministratori cinesi che considerano il Tibet come una loro eredità personale e agiscono come dei signori feudatari”.
Ora bisognerà vedere le reazioni della Cina e come andrà avanti la promozione aggressiva del Panchen Lama che ha scelto. Ma bisogna anche considerare come concretamente reagirà il popolo tibetano, che ha trovato un leader forte che – da laico – sembra non avere alcuna intenzione di lottare pacificamente per un Tibet autonomo in territorio cinese, come faceva il Dalai Lama, ma di combattere per un paese libero e completamente indipendente dalla Cina.

 

(da Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2011)