di Marco Del Corona
(www.corriere.it, 19 ottobre 2011)
Tenzin Wangmo aveva vent’anni e, viene da pensare, una fede grande quanto la propria disperazione. Monaca tibetana, addosso la tunica spessa di un inverno che ha già preso possesso del Sichuan settentrionale, la giovane religiosa si è cosparsa di carburante e si è data fuoco. Sarebbe stata vista camminare 7 o 8 minuti con il corpo in fiamme, prima di cadere a terra. Poi l’agonia e la morte fuori dal suo monastero, Dechen Chokorling, prefettura di Aba. Uniche parole pronunciate da Wangmo: slogan a sostegno del Dalai Lama e contro la repressione nel Tibet e nelle aree di cultura tibetana ma fuori dai confini amministrativi del Xizang, nome cinese della provincia.
SPARI E DUE FERITI L’autoimmolazione, la decima dal 2009, è avvenuta lunedì. L’hanno diffusa le organizzazioni vicine alla diaspora tibetana ma elementi raccolti da agenzie di stampa internazionali sembrano confermarla. Uno dei portavoce del ministero degli Esteri, Liu Weimin, ieri ha fatto sapere che il governo, prese informazioni, “agirà in modo appropriato” ma che in ogni caso i gesti di autolesionismo “sono immorali”. Il giorno prima, in un’altra zona del Sichuan tibetano, due residenti sono stati colpiti dalla polizia, quando questa ha cominciato a reagire a una manifestazione nelle prefettura di Garze. Non si sa che cosa sia successo ai due feriti, e se siano ancora vivi.
DIECI CASI DA 2009 E’ una catena di fuoco e di sangue. Il martirio che la monaca di Aba si è autoinflitta, deviando dall’ortodossia religiosa e dalle consuetudini, è il nono caso dal 16 marzo di quest’anno, quando un giovane ex monaco del monastero di Kirti, Norbu Damdrul, si è arso invocando “libertà e indipendenza per il Tibet”. Dei religiosi o ex religiosi che si sono immolati nel 2011 quattro sono morti. Pechino non ignora la spirale, e infatti la ong International Campaign for Tibet (ICT) segnala che a Lhasa sono state osservate pattuglie con quattro militari armati e un quinto con un estintore. L’abate in esilio della lamaseria di Kirti, dalla quale molti degli aspiranti suicidi provenivano, ha affidato alla ICT la sua lettura dei fatti. Parla di “arresti arbitrari da parte del governo cinese”, di “sentenze d’una durezza inimmaginabile inflitte sulla base di falsità”, di Kirti “trasformato virtualmente in una prigione” (i monaci, 2.500 in marzo, ora sono 600), di come “religione e cultura tibetane siano sotto un’inimmaginabile repressione”: si è “raggiunto un punto di disperazione tale che la gente preferisce morire piuttosto che vivere”.
OBIETTIVI Ma se l’obiettivo di suscitare l’attenzione dei media internazionali si può dire raggiunto, quello di riaprire canali di comunicazione almeno minimi tra Pechino e il governo tibetano in esilio (non riconosciuto da alcun Paese) non pare essere destinato a successo. Anzi, gli stessi simpatizzanti della causa tibetana temono un’ulteriore stretta su Aba e altre zone tibetane, ancora più dura di quella già in atto, con posti di blocco, accesso limitatissimo e “seminari di patriottismo” per monaci. Pechino lavora sul lungo periodo. Spaccare il clero tibetano, premiare i collaborazionisti, marginalizzare i lealisti del Dalai Lama. Far crescere in autorevolezza il Panchen Lama di nomina cinese, figura che sta coltivando con cura. E, naturalmente, aspettare che muoia il Dalai Lama.
Marco Del Corona
www.corriere.it
19 ottobre 2011