(La Repubblica, 17 novembre 2008)Nel salutare tutti i tibetani, che stanno in Tibet o fuori, vorrei proporre alcune questioni importanti.
Fin da quando ero molto giovane, mi sono reso conto quanto trasformare la nostra guida in un sistema democratico rivestisse una importanza primaria per gli interessi tibetani a breve e lungo termine. È per questo motivo che, dopo aver assunto la responsabilità di capo spirituale e politico del Tibet, ho lavorato duramente per costruire in Tibet tali condizioni democratiche. Purtroppo, sottostando a una durissima repressione da parte della Repubblica Popolare Cinese, non siamo stati in grado di realizzarle. Ciononostante, subito dopo l’inizio del mio esilio nella struttura del nostro governo furono introdotte delle riforme di buon senso e fu costituito un Parlamento di nuova elezione. Nonostante l’esilio, il processo di democratizzazione della comunità tibetana ha fatto dei significativi passi in avanti. Oggi, la comunità tibetana in esilio è diventata una moderna democrazia nel vero senso della parola e prevede un’amministrazione dotata di una sua Carta propria e di un gruppo dirigente eletto dal voto popolare. Possiamo essere orgogliosi di essere arrivati a questo punto.
La ragione per la quale ho insistito nell’incoraggiare l’istituzione di un sistema democratico poggia sulla necessità di garantire un sistema di governo del Tibet che sia sostenibile nel futuro. Ciò non è dovuto a una mia riluttanza o a un mio voler derogare alle mie responsabilità.
Da quando siamo in esilio, abbiamo esercitato le funzioni essenziali di un sistema democratico, invitando il nostro popolo a esprimere le proprie opinioni su importanti decisioni politiche riguardanti il futuro del Tibet. Nel 1993, dopo la rottura dei contatti con la Repubblica popolare cinese, conducemmo dei sondaggi tra i tibetani in esilio e raccogliemmo dei suggerimenti in Tibet. Sulla base dei risultati raccolti, il nostro Parlamento in esilio approvò una risoluzione che mi conferiva il potere di continuare ad occuparmi discrezionalmente di questo tema senza la necessità di ricorrere a un referendum. Di conseguenza, abbiamo adottato la linea politica della “Via di Mezzo” e otto sono le tornate di colloqui tenutisi da quando sono stati ristabiliti i contatti con la Rpc nel 2002. Ma nonostante questa linea politica sia stata largamente apprezzata dalla comunità internazionale e conti sul sostegno di molti intellettuali cinesi, in Tibet nono sono stati registrati segni positivi o cambiamenti. Difatti, le politiche della repubblica polare cinese verso il Tibet e verso i tibetani non sono cambiate. Dalle sei tornate di colloqui con funzionari cinesi nel 2007 non sono scaturiti piani per altri colloqui nell’immediato futuro. Tuttavia, data l’urgenza che a seguito degli eventi di marzo di quest’anno la situazione in Tibet impone, e al fine di non lasciare niente di intentato, all’inizio di maggio abbiamo partecipato a incontri informali cui sono seguite la settima e l’ottava tornata di colloqui a luglio e all’inizio di novembre. Nonostante ciò non sono stati fatti dei reali passi in avanti.
Nel marzo di quest’anno i tibetani – giovani e anziani, uomini e donne, monaci o laici, credenti o non credenti e gli studenti – di tutto il Tibet, hanno rischiato la vita per manifestare in modo pacifico e legale la loro insoddisfazione di lunga data rispetto alla politica cinese. Ho covato la speranza in quel momento che il governo cinese avrebbe individuato una soluzione sulla base della reale situazione. Al contrario, ha completamente ignorato e rifiutato di rispondere ai sentimenti e alle aspirazioni dei tibetani scatenando una brutale repressione giustificandola con un loro essere “separatisti” e “reazionari”. In quel periodo, che ha costituito una dura prova per i tibetani, molto preoccupato ho esercitato tutta l’influenza possibile sulla comunità internazionale e nei confronti della Cina, inviando tra l’altro una lettera personale al presidente Hu Jintao. I miei sforzi, tuttavia, non hanno sortito quasi nessun effetto.
Considerando che tutti erano presi dalla questione delle Olimpiadi a Pechino, quello non è apparso il momento adatto per consultare il pubblico in generale. Ora che il momento sembra essere più appropriato e facendo riferimento alla clausola 59 della “Carta dei tibetani in esilio”, lo scorso 11 settembre ho sollecitato la nostra leadership eletta a indire prontamente una riunione speciale. La mia speranza è che i partecipanti saranno in grado di raccogliere l’opinione delle loro rispettive comunità e di presentarle in questa occasione.
Considerando il coraggio ispiratore dimostrato dai tibetani in tutto il Tibet nel corso di quest’anno, la situazione che il mondo sta vivendo e l’attuale atteggiamento di intransigenza del governo della Rpc, tutti i partecipanti dovrebbero confrontarsi, in quanto cittadini tibetani, in uno spirito di uguaglianza, di cooperazione e di responsabilità collettiva su quale sia il miglior corso d’azione per fare progredire la causa tibetana. Questo incontro dovrebbe svolgersi in un’atmosfera aperta che metta da parte le questioni particolari per concentrarsi piuttosto sulle aspirazioni e sui punti di vista del popolo tibetano. Lancio un appello a tutte le persone coinvolte affinché lavoriamo insieme al meglio delle nostre capacità.
La riunione speciale è indetta allo scopo specifico di fornire un forum per capire le opinioni e i punti di vista reali del popolo tibetano in un confronto libero e franco. Deve essere chiaro a tutti che questa riunione non prevede una agenda con un obiettivo predeterminato da raggiungere.
(Traduzione di GuiomarParada)