SALE LA TENSIONE NEL TIBET ORIENTALE. DUE TIBETANI UCCISI A SERTHAR

SertharDharamsala, 25 gennaio 2012. Per il secondo giorno consecutivo la polizia cinese ha aperto il fuoco contro un numeroso gruppo di tibetani che pacificamente dimostravano contro l’occupazione del loro paese. È accaduto ieri, 24 gennaio, a Serthar, Prefettura di Kardze (o Kandze), nella provincia orientale del Sichuan. Due i tibetani uccisi: Popo, trentacinque anni, e Dawa Dakpa, poco più che trentenne. La Polizia Armata del Popolo è intervenuta in modo massiccio – pare siano stati mobilitati oltre 600 agenti – e ha iniziato a sparare indiscriminatamente sulla folla di oltre duecento tibetani che, nel centro di Serthar, marciavano distribuendo volantini e recando striscioni e cartelli in cui chiedevano l’indipendenza del Tibet e auguravano lunga vita al Dalai Lama.

Le prime notizie arrivate ieri dal Tibet orientale parlavano di cinque morti e di almeno quaranta feriti di cui almeno tre in gravi condizioni. Si aggrava invece il bilancio dei tibetani uccisi lunedì 23 gennaio 2012 a Drango (Luhuo in cinese) dove si contano tre morti e oltre trenta feriti di cui dodici gravissimi.

Fonti tibetane riferiscono che, a Serthar, la polizia ha effettuato almeno duecento arresti. “È stata imposta una sorta di legge marziale” – ha dichiarato a Radio Free Asia un residente. “La gente è confinata in casa e la polizia spara su chiunque si avventuri per la strada”.

Cartina_SichuanSerthar e il suo rinomato Centro di Studi Buddisti, il Larung Gar, entrò tristemente nella cronaca nell’estate del 2001 quando le autorità cinesi deportarono con la forza migliaia di monaci e monache e ne distrussero le abitazioni costringendo i religiosi a vagare tra i boschi, senza alcun riparo. L’abate, Kenpo Jigme Phuntsog, che si era rifiutato di partecipare alle cerimonie per l’intronizzazione del Panchen Lama “cinese” fu arrestato e trasferito in un ospedale di Chengdu. Morì poi in circostanze mai chiarite.

Nuove proteste anche a Ngaba dove il 23 gennaio monaci e laici hanno protestato contro l’occupazione cinese in Tibet. Recitando mantra hanno marciato verso il vicino centro di Meruma. Quando la polizia ha cercato di fermarli non si sono fatti intimidire e hanno continuato a camminare. I mantra si sono trasformati in slogan inneggianti alla libertà del Tibet e al ritorno del Dalai Lama. Le forze di sicurezza hanno disperso la folla con gas lacrimogeni e hanno bloccato le strade di collegamento tra Ngaba e le contee adiacenti.

Questa drammatica “escalation” delle proteste in concomitanza con l’avvicinarsi della ricorrenza del capodanno tibetano e, soprattutto, nell’imminenza dell’anniversario del 10 marzo, pone dei seri interrogativi sul futuro, immediato e a lungo termine, del Tibet. La disperazione e l’esasperazione dei tibetani a cui si contrappone la crescente repressione cinese lasciano presagire giorni amari, con nuove morti, arresti e deportazioni. Registriamo, per dovere di cronaca, le recenti prese di posizione contro la politica cinese in Tibet di molti governi tra cui quelli di Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Danimarca, Canada, Polonia, Svizzera e Francia. È di ieri, 24 gennaio, la dichiarazione di Maria Otero, coordinatore speciale USA per la questione tibetana, in cui si chiede, tra l’altro, al governo cinese di “salvaguardare i diritti di tutti i cittadini cinesi in Cina”, di riprendere i contatti con il Dalai Lama e di consentire a giornalisti e gruppi indipendenti di recarsi nelle aree tibetane. Da Dharamsala, Lobsang Sangay chiede ai governi di tutto il mondo di non rimanere passivi di fronte a tanta violenza e di intervenire per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Nulla di nuovo a fronte del crescente dilagare della rivolta e del disperato sacrificio di tante vite umane.

Fonti: Radio Free Asia – Phayul – Free Tibet