Tibet libero, sciopero della fame

di Piero Verni

Espresso/repubblica.it, 14 marzo 2012

 

Il nostro obiettivo è ottenere l’indipendenza per il Tibet e la democrazia in Cina. Stiamo lottando perché il Dalai Lama possa tornare al più presto in un Tibet libero”. Sono le parole che mi sussurra con un filo di voce Shingza Rinpoche, un importante lama tibetano giunto oggi al 21° giorno di sciopero della fame. Siamo a New York, in uno spiazzo di fronte al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite dove il Tibetan Youth Congress, una delle principali NGO della diaspora tibetana, ha organizzato un “Indefinite Hunger Strike for Tibet” a cui oltre al religioso partecipano due laici, Dorje Gyalpo nato il 5 marzo 1953 nel Tibet meridionale e Yeshi Tenzin nato il 15 marzo 1973 in India.
I tre chiedono all’ONU di fare pressioni su Pechino perché ponga termine alla repressione in Tibet e di inviare una delegazione sul Tetto del Mondo per verificare l’effettiva situazione di quell’area da oltre sessant’anni controllata da Pechino dove negli ultimi tempi per protestare contro l’occupazione cinese si sono immolate con il fuoco 27 persone.
Nei giorni scorsi era venuto a trovare i tre tibetani l’attore americano Richard Gere da molto tempo deciso sostenitore delle ragioni del Tibet e amico personale del Dalai Lama. Come prevedibile la visita della star di Hollywood ha innescato una forte copertura mediatica nei confronti di questa protesta inizialmente quasi del tutto ignorata dai mezzi di comunicazione.
Forse anche per questo improvviso interesse di giornali e Tv, dopo un ostinato silenzio durato 20 giorni ieri finalmente Ivan Simonovic, funzionario di rilievo della Commissione Diritti Umani dell’ONU, ha fatto una breve e non ufficiale visita ai digiunatori al termine della quale ha invitato nel suo ufficio il Presidente del Tibetan Youth Congress, Tsewang Ringzin, per discutere della situazione in Tibet e della continuazione dello sciopero della fame.
Questa prima apertura, sia pure non ufficiale, pare confermare una indiscrezione che poche ore fa ho avuto da una fonte attendibile. Sembrerebbe che il peggioramento della salute dei tre digiunatori e la crescente attenzione dei media verso questa protesta stiano creando non poco imbarazzo ai piani alti delle Nazioni Unite. In modo particolare alcuni componenti della Commissione per i Diritti Umani premerebbero perché si invii ai tre almeno un segnale che le loro domande sono prese in seria considerazione.
I tibetani sono comunque intenzionati ad andare avanti nella loro protesta nonostante comincino a manifestarsi i primi seri problemi nelle loro condizioni di salute. “Non intendiamo lasciare perdere… Vogliamo che l’ONU risponda con serietà alle nostre richieste”, mi ha detto ieri Yeshi Tenzin nonostante sia visibilmente provato dal digiuno.
Ed è proprio questa determinazione a spaventare l’ONU. Infatti la possibilità di trovarsi sul portone di casa e sotto i riflettori dei media uno o più Bobby Sands tibetani, non appare entusiasmante agli occhi della Presidenza delle Nazioni Unite. Presidenza che però deve fare anche i conti con il crescente fastidio di Pechino che, sempre secondo le indiscrezioni che ho raccolto, sarebbe furibonda per avere da tre settimane di fronte al Palazzo di Vetro un presidio di “rinnegati secessionisti” e starebbe facendo pressioni sulla polizia e il sindaco di New York perché lo sbaracchi al più presto. Con ogni probabilità la dirigenza delle Nazioni Unite sta pensando a qualche gesto formale abbastanza innocuo per non irritare ulteriormente la Cina ma nel contempo abbastanza significativo per convincere i tre digiunatori a interrompere la loro azione.
Un gioco di equilibrio non semplice anche perché le notizie che arrivano dal Tibet sono sempre più drammatiche. Il 10 marzo si è avuta la ventisettesima immolazione. Un giovane monaco di 18 anni, Gepey, si è dato fuoco davanti a un accampamento militare cinese nella cittadina di Ngaba (Sichuan) dove tutti i ristoranti e le attività commerciali tibetane sono stati chiusi in segno di lutto.
Questa ondata di autoimmolazioni, iniziata nel 2009 ma intensificatasi negli ultimi mesi, sta creando notevoli problemi al governo di Pechino che evidentemente non è in grado, nemmeno ricorrendo alle più dure misure repressive, di normalizzare la situazione delle aree tibetane occupate nel 1950, sia per quanto riguarda la Regione Autonoma del Tibet (circa la metà del vecchio Tibet indipendente) sia per le zone incorporate nelle provincie del Sichuan, del Quingai del Gansu e dello Yunnan.

 

Piero Verni

Espresso/repubblica.it, 14 marzo 2012