di Claudio Tessarolo
L’Arena.it, 18 ottobre 2012
Vanno in mostra a Treviso «i tesori del Tibet», ed è subito polemica. Possibile? Inevitabile? Probabilmente sì. Uno studioso, cinese, ha recentemente osservato che a Lhasa, la capitale del Tibet, vi sono «più cinesi che tibetani, più poliziotti che monaci, più telecamere di sorveglianza che finestre». È vero, purtroppo. Oggi in Tibet non è più consentito organizzare forme convenzionali di protesta come gli scioperi della fame, le dimostrazioni o le manifestazioni pacifiche. Si deve perciò ricorrere ad atti estremi. Così si spiega lo stillicidio di auto-immolazioni di tibetani i quali, per protestare contro le libertà religiose e civili negate, si cospargono di benzina e si danno fuoco. La terribile contabilità parla di oltre 50 immolazioni nell’ultimo anno solare. Nell’intera regione, dove vige di fatto una legge marziale, gli agenti di polizia oltre a pistola e manganello sono stati dotati di estintore. Nel caso, devono correre: non sia mai che spunti qualche inopportuno telefonino per registrare immagini da diffondere al mondo. You Tube può fare (anche) paura. Inevitabili le restrizioni degli ultimi tempi per gli stranieri, possibili testimoni scomodi, controllati con discrezione ma in maniera costante. In Tibet la vita è sempre (più) difficile.
Ecco allora che una mostra in grado di proporre pezzi rari attraverso i quali scoprire o conoscere meglio la storia di un popolo irriducibile nonostante un’occupazione che dura da ormai sessant’anni, le sue tradizioni e la sua cultura da sempre di grande fascino e interesse per l’Occidente, diventa una occasione ghiotta. In teoria, almeno. Indipendentemente dal fatto che venga enfaticamente pubblicizzata come «la più importante rassegna sul Tibet mai allestita fuori dai confini cinesi», la mostra è in effetti una opportunità per parlare e far parlare di un popolo che non si è arreso all’occupazione cinese, nonostante sia sottoposto da decenni a un devastante genocidio culturale. Dovrebbero essere contenti di questa iniziativa trevigiana i tibetani in esilio che vivono nel nostro Paese. Invece non è così. Nyima Dhondup, il presidente della Comunità tibetana in Italia, è un fiume in piena: «Le motivazioni per contestare questa mostra sono molte, principalmente mosse da un assordante silenzio sulla situazione tibetana, di cui non parla praticamente nessuno, meno che meno l’iniziativa di Treviso. Recentemente si sono immolati più di 54 tibetani, di cui la maggior parte giovanissimi, monaci e non, nell’indifferenza generale. Per non parlare delle torture, degli abusi continui: gli arresti solo per aver gridato “Lunga vita al Dalai Lama” sono all’ordine del giorno».
Ma la mostra di Treviso di pezzi rari, di oggetti d’arte e di culto millenari, cosa c’entra? «Non è una mostra “del” popolo tibetano; rappresenta tutto ciò che è stato sottratto dai cinesi al popolo tibetano. È in atto un genocidio anche culturale e questa è una rassegna di tesori sottratti negli anni da monasteri devastati, con migliaia di monaci trucidati. È una beffa ignobile proporre così le testimonianze di un Tibet che gronda sangue e pertanto noi tibetani riteniamo che vada boicottata una mostra che non denuncia apertamente la reale situazione in cui versa il popolo tibetano». Denuncia Claudio Cardelli, presidente della Associazione Italia-Tibet: «Non mettiamo in dubbio la preziosità e la rilevanza degli oggetti esposti, ma non possiamo non rilevare come il Tibet venga qui presentato con il consueto taglio esotico-turistico intriso di facili suggestioni da un lato e con pesanti stereotipi propagandistici filocinesi dall’altro». Cardelli continua: «Il curatore della mostra dà informazioni distorte sulle relazioni storiche e politiche tra Tibet e Cina, presentandole come un rapporto ininterrotto di totale sottomissione e appartenenza del Tibet alla Cina stessa, quando invece l’occupazione è stata illegale, violenta e inaccettabile. Per tutte queste ragioni l’associazione Italia-Tibet si schiera a fianco della Comunità tibetana in Italia nel denunciare questa ennesima operazione di propaganda della Repubblica popolare cinese». Tanto basta per rendere incandescente la vigilia dell’apertura della rassegna, prevista per sabato. «La questione tibetana va ben oltre il problema dei diritti e del benessere di sei milioni di tibetani. Riguarda l’intero pianeta. La peculiare cultura tibetana, ricca della sua lingua, spiritualità e storia, deve essere protetta», ha detto recentemente Lobsang Sangay, primo ministro del governo tibetano in esilio». Giusto. La mostra di Treviso merita di essere visitata, avendo chiaro però, come quei tesori siano finiti nelle mani dei cinesi, e da queste a Treviso.
Claudio Tessarolo