Quando la Cina esporta il Tibet

di Raimondo Bultrini
La Repubblica.it, 21 ottobre 2012
 
Si chiama Adriano Màdaro ed è un giornalista prestato all’arte l’uomo che ha organizzato una mostra dal titolo “Tibet: Tesori dal Tetto del Mondo” aperta oggi a Treviso alla Casa dei Carraresi. Questa e altre esposizioni di oggetti e opere sono il frutto dell’esperienza dei suoi 173 viaggi – dal lui meticolosamente calcolati – tra la Cina e il Tibet. Ma più che le statue e le immagini trasportate in Veneto dall’Oriente, a far rimbalzare il suo nome nelle cronache di questi giorni sono le cose che alla mostra mancano. Infatti, per parlarne e farle conoscere, la comunità tibetana in Italia, sostenuta dall’Associazione Italia Tibet, ha pacificamente organizzato una “contro-manifestazione” nella stessa città.
Nella sostanza, si accusa il curatore di aver creato un evento destinato a presentare Paese e cultura del Tetto del mondo dal punto di vista del governo cinese, che dopo aver occupato il Tibet distrusse, espose nei musei o mise sul mercato preziose opere d’arte dell’antica tradizione Vajrayana. Màdaro si introduce ufficialmente come uno dei più grandi esperti viventi di Cina e Tibet, dopo averci viaggiato per 35 anni e scritto articoli su un giornale veneto durante le ribellioni di piazza Tien An Men. Ma è anche – come scrive – “l’unico membro non cinese del Consiglio Direttivo Permanente dell’Accademia Cinese di Cultura Internazionale”.
In questa veste – riporta la Tribuna di Treviso – ha sostenuto che «la Cina è una nazione multietnica con una regione autonoma che si chiama Tibet». Tutto vero, visto che formalmente oggi così è scritto sulle carte geografiche. Che esista però davvero questa autonomia, è ovviamente tutt’altra faccenda. Ma nella mostra non si fa neppure cenno alle ragioni per cui il Tibet, da Stato Indipendente al tempo del XIII Dalai lama, e già regno a sé prima ancora che arrivasse il buddhismo sugli altipiani nel settimo secolo, sia diventato parte della “Madrepatria” Cina.
Amina Crisma, che insegna Filosofie dell’Asia orientale all’Università di Bologna, ha detto al Mattino di Padova: «la Cina ha alimentato una fortissima politica culturale che tende ad accreditare in modo diverso la Cina di fronte all’ Occidente. I cinesi spingono perché l’immagine del Tibet cinese diventi familiare in Occidente e lo sanno fare bene”. Ma poi la docente inserisce una nota critica, sostenendo che “la questione non è tanto quella dell’indipendenza, quanto quella dello statuto delle minoranze in Cina. Il pericolo maggiore non viene dalla repressione, ma dal trasferimento in massa di cinesi”.
Repressione e colonizzazione del Tibet da parte dei cinesi sono però parte di una stessa politica. La Cina non è la sola grande nazione a sfruttare le risorse delle minoranze più deboli a fini propagandistici o culturali, come attraverso una mostra di oggetti presi dagli altari dei monasteri o privati, oppure ancora a fini utilitaristici, come accade con le dighe sui fiumi himalayani e il taglio delle foreste. Ma di certo il Celeste Impero è tra i protagonisti di un saccheggio globale né più né meno che le grandi compagnie multinazionali dei democratici Stati Uniti d’America e di parecchi Stati europei che investono nelle miniere d’oro, nelle foreste, o nelle società gestite da dittatori e speculatori.
Nel caso specifico della presenza cinese in Tibet, esistono innumerevoli testi di storia e ognuno è in grado di leggerli secondo la propria predisposizione ideologica e-o conoscenza dei fatti. Il giornalista-organizzatore della mostra di Treviso è solo uno dei tanti a ritenere che il popolo degli altipiani non è altro che una delle tribù “civilizzate” dagli han, la etnia di maggioranza cinese. Il fatto che i tibeto-mongoli parlino un’altra lingua, mangino altro cibo, pensino e preghino diversamente poco importa. Sono figli dello stesso cielo.
Quanto ai 58 tibetani che si sono dati fuoco nell’ultimo anno per protestare contro le imposizioni del regime cinese in materia religiosa e civile, dal punto di vista del giornalista italiano esperto di Cina e Tibet non è ovviamente materia da riferire in una mostra sulle bellezze del Paese, presentata in Occidente per conto dell’organismo ufficiale cinese del quale fa parte. Per questo a parlare dell’altra faccia della storia ci hanno pensato gruppi di impegno civile come Italia Tibet e la comunità tibetana esule. E magari in cuor suo l’organizzatore sperava in una contestazione anche più rumorosa della loro semplice contro-conferenza, così da alzare l’interesse per la mostra.
In fondo, le foto e i video dei monaci che si sono dati alle fiamme per disperazione circolano da tempo su Internet in tutto il mondo. Mentre c’è da scommettere che le immagini della esibizione di Treviso – se non dovesse nascerne un improbabile caso internazionale – saranno visionate per la finezza delle opere d’arte esposte, ma presto dimenticate. Ancora meno impressa resterà nella memoria del pubblico il tipo di informazione diffusa durante il periodo della mostra.
I tibetani e i loro sostenitori che hanno protestato per l’esposizione trevigiana, sanno che qualcosa di irreparabile è già accaduto ben prima di vedere i propri oggetti presentati come ornamenti di stravaganti maghi e sciamani, figure mistiche e indefinite che alla fine dei conti sono state domate dal potere di semplici e pragmatici uomini (cinesi) con il fucile.
In passato lo stesso Màdaro organizzò – anche in quell’occasione nello stesso palazzo di Treviso – una mostra dedicata ai Manchù. Sia gli oggetti che le immagini appartenevano a un popolo di fatto estinto, quasi completamente assorbito dagli han cinesi che pure furono governati a lungo da imperatori mancesi. Neanche in quel caso c’era un accenno alla scomparsa di tale antica cultura.
La comunità tibetana e l’Associazione Italia Tibet sanno altrettanto bene che i tibetani non sono ancora ridotti come i mancesi, sebbene la tendenza sia quella. E sanno che senza occasioni talvolta “provocatorie” come la protesta per una mostra giudicata “fuorviante”, riuscirebbero raramente a far sentire la propria voce. Ben pochi media italiani, infatti, hanno parlato dei numerosi suicidi per la causa del Tibet libero. La speranza è quindi che l’eco alla mostra – se ci sarà – possa riaccendere l’interesse per i martiri, che hanno dato la vita per far conoscere l’altra faccia della “civilizzazione cinese” oggi deformata perfino nell’arte. Come ha detto più volte il Dalai lama, il peggior nemico puo’ essere anche il miglior maestro.
A forza di presentare la storia in un certo modo, il rischio di vederla distorta a fini propagandistici e-o artistici è del resto inevitabile. Di mostre analoghe ne sono state realizzate certamente moltissime nel passato, ma occorrono sempre molti soldi e il permesso di esportare le opere. Due cose che i tibetani esuli non possono permettersi. Per tutto questo bisogna capire perché il saccheggio della propria storia e della propria arte religiosa li rattristi così tanto. Vorrebbero sentirsi orgogliosi di qualcosa che appartiene a loro, e non alla Cina che si appropria di certe opere affidandole a un giornalista italiano di loro gradimento, entrambi incuranti del significato di ciò che espongono. I profughi avrebbero voluto mostrare al mondo magari gli stessi oggetti, e dire: “questi li abbiamo fatti noi, come li facevano i nostri maestri, i nonni e i nonni dei nostri nonni”. E magari spiegare il simbolismo di una statua e delle sue forme, come nel caso delle coppie di divinità tantriche in unione sessuale, semplicemente definite nelle didascalie “Buddha della felicità”. Come dire, se qualcuno vuole fare viaggiare certe opere per il mondo, dicesse almeno che cosa significano e a chi sono state sottratte.
Raimondo Bultrini