7di Bernardo Cervellera
AsiaNews – 7 novembre 2013
Sono ancora sconosciuti gli autori dell’attentato avvenuto ieri a Taiyuan (Shanxi). Le bombe “fatte in casa”, hanno causato la morte di una persona e otto feriti, oltre a danni alle auto e ai vetri della zona circostante. La polizia parla di “un atto deliberato”, ma nessuno ha rivendicato il gesto. Lo stesso avviene per l’attentato in piazza Tiananmen del 28 ottobre scorso, quando un Suv è esploso uccidendo cinque persone e ferendone almeno 30. La polizia ha accusato i “terroristi uiguri”, ma anche qui, nessuna rivendicazione.
Tutte queste bombe e attacchi hanno qualcosa di insolito e insieme di scontato.
L’aspetto insolito è che essi prendono di mira obbiettivi pubblici e onorati del potere. Le sette bombe artigianali scoppiate a Taiyuan avevano come obbiettivo la sede provinciale del Partito, che gestisce la vita di decine di milioni di abitanti.
Il Suv che è esploso in piazza Tiananmen aveva di mira il ritratto di Mao Zedong che domina la facciata del Palazzo imperiale e l’entrata di Zhongnanhai, la parte del Palazzo dove vi sono le residenze dei grandi leader del Partito. Finora in Cina si erano registrate rivolte e assalti a sedi locali del Partito, a municipi, alle macchine della polizia: tutto a un livello cittadino, esprimendo l’ira per le ingiustizie subite a causa di sindaci, segretari del Partito, o capivillaggio. Ora nel mirino vi sono i segni grandi del potere: piazza Tiananmen, da dove Mao arringava le folle sterminate, il baricentro dell’impero, il luogo dove il Partito ha massacrato giovani universitari e operai il 4 giugno del 1989; Taiyuan e lo Shanxi, zona di miniere e di industrie del carbone che hanno permesso alla Cina di compiere il balzo nella modernizzazione, ma anche di affondare in un inquinamento mortale.
Un altro elemento di novità è la diffusione delle notizie degli attentati: negli anni passati gli scontri, i morti, gli incendi si venivano a conoscere dopo giorni o settimane; oggi, grazie ai social network si vengono a conoscere in tempo reale.
Con questa serie di attentati – che la pubblica sicurezza non riesce a fermare e che la censura non riesce a soffocare – si sta consumando la sfiducia totale nel Partito comunista cinese. Fino a pochi anni fa i cinesi dicevano: il Partito è violento, ma ci ha portato benessere e modernità. Oggi, il Partito è guardato come un gruppo di oligarchi corrotti che con la scusa di “servire il popolo”, lo ha sfruttato il più possibile, accumulando ricchezze miliardarie davanti a una popolazione che vive modestamente o nella povertà.
In questi attentati vi è anche un aspetto di scontatezza: da anni i massimi leader (Jiang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping) avvertono che se i membri del Partito non fermano la voragine della corruzione, il Partito stesso rischia di finire. Ma la risposta dei quadri è stata sorda: gli scandali di mazzette, tangenti, prestiti ricevuti dalle banche e condonati sono all’ordine del giorno. E gli attivisti democratici che chiedono che ogni membro del Partito dichiari le sue ricchezze, vengono arrestati per “disturbo dell’ordine pubblico”.
Un altro elemento di scontatezza è che gli stessi sociologi dell’Accademia delle scienze sociali di Pechino hanno di continuo avvertito che il coefficiente Gini di instabilità della Cina, dovuto all’abisso fra ricchi e poveri, è ormai da tempo a livello di un Paese del Terzo mondo, facile a produrre rivolte e scontri con le forze dell’ordine. E infatti in tutti questi anni si possono contare oltre 180mila rivolte all’anno: scioperi, sit-in, scontri con la polizia, occupazioni di fabbriche. I motivi sono vari: sequestro di terre ai contadini per costruire centri residenziali venduti a peso d’oro; inquinamento delle falde acquifere da parte delle industrie; non pagamento dei salari agli operai.
Davanti a questo desolante spettacolo, una parte del Partito vorrebbe fare alcune riforme. Alla fine della settimana, il 9 novembre prossimo, si terrà a Pechino il Terzo Plenum del Partito, che vorrebbe varare la fine di alcuni monopoli delle industrie di Stato, facilitazioni per gli investimenti privati; ammortizzatori sociali per i contadini. Tutto questo significa perdita di potere politico ed economico per alcuni e aumento delle spese per i governi provinciali. E molti vi remano contro, additando il pericolo che questi passi “troppo liberali” sono simili a quelli che hanno portato alla caduta dell’Urss.
Come ipotesi, è anche possibile che questi attentati siano suscitati ad arte, per fermare ogni riforma, mantenere il pugno di ferro e garantire ancora per qualche anno il potere assoluto del Partito.
Di Bernardo Cervellera
AsiaNews – 7 novembre 2013