17 aprile 2015. Un tibetano si è autoimmolato con il fuoco ieri, 16 aprile, nel villaggio di Gyadey, nella Contea di Ngaba. Si chiamava Dhamkar, aveva 45 anni ed era padre di sette figli di età compresa tra i 21 e i 7 anni. La sua morte avviene a meno di una settimana di distanza da quella di Tashi Khando, la monaca quarantaduenne immolatasi a Kardze il giorno 8 aprile.
Prima di darsi fuoco Dhamkar ha allestito, nel cortile della sua abitazione, un altare sul quale ha posto le fotografie del Dalai Lama e del defunto 10° Panchen Lama, le due più importanti figure del Buddismo tibetano. Allontanatosi di pochi passi, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. Già avvolto dalla fiamme ha gridato: “Lasciate tornare il Dalai Lama” e “Liberate Panchen Rinpoche”.
Il personale della sicurezza cinese, arrivato sul luogo della protesta, ha portato i resti di Dhamkar alla vicina stazione di polizia dove sono stati convocati per essere interrogati il fratello e il cognato del defunto eroe tibetano conosciuto da tutti per il suo temperamento pacifico e per il suo adoperarsi per la promozione della pace contro ogni forma di violenza. Questo suo impegno gli era valso uno speciale riconoscimento da parte di un’associazione di quarantadue monasteri.
Il giorno prima di autoimmolarsi, Dhamkar aveva ribadito l’importanza di astenersi da ogni forma di lotta e di violenza quale mezzo per garantire la pace nel mondo in un gruppo locale di chat.
Con la sua morte sale a 139 il numero dei tibetani che si sono autoimmolati dal 2009 all’interno del Tibet occupato. E’ la terza autoimmolazione con il fuoco dall’inizio del 2015. Tre delle ultime cinque autoimmolazioni sono avvenute a Ngaba: Nyi Kyab, il 16 aprile 2015; Norchuk, il 6 marzo 2015; Tsepe Kyi, il 22 dicembre 2014.
La Cina, nel durissimo libro bianco pubblicato il 15 aprile ha, tra l’altro, accusato il Dalai Lama di essere l’istigatore delle autoimmolazioni. Accuse senza fondamento poiché le autoimmolazioni e il loro crescente numero negli ultimi mesi sono atti di protesta contro la crescente restrizione della libertà religiosa e la discriminazione politica e sociale operata dal governo di Pechino nei confronti del popolo tibetano.
Fonti: Phayul – Tibet Network