di Leone Grotti
4 giugno 2015
Ventisei anni dopo il massacro di Piazza Tienanmen in Cina è cambiato tutto, tranne una cosa: la paranoia del regime comunista. L’Impero di Mezzo è più ricco, più moderno e più potente ma anche quest’anno a Pechino, e nel resto della Cina, nessuno potrà commemorare l’uccisione da parte dell’esercito di Liberazione del popolo di oltre 2 mila studenti.
VIETATO RICORDARE. Nella notte tra il 3 il 4 giugno del 1989, la guida de facto della Cina Deng Xiaoping e il primo ministro Li Peng ordinarono ai soldati di far rispettare la legge marziale e di reprimere con la forza la protesta di circa 300 mila studenti, che da due mesi chiedevano più libertà. Pechino non ha mai diffuso il numero delle vittime e ha classificato il tutto come un «incidente», descrivendo il movimento degli studenti come «sommossa anti-rivoluzionaria». In Cina è vietato persino parlare del “6-4″ (così i cinesi si riferiscono ai fatti di piazza Tienanmen, citando solo il mese e il giorno), cercare informazioni su internet è impossibile e nel periodo precedente alla data, attivisti ed avvocati per i diritti umani vengono arrestati e perseguitati dalla polizia.
LA LETTERA APERTA. Quest’anno il partito comunista ha toccato livelli di repressione senza precedenti, arrivando anche a censurare se stesso. Il 20 maggio, infatti, uno studente cinese che frequenta l’università della Georgia, Gu Yi, insieme a dieci compagni di diverse università americane e australiane, ha diffuso sui social media una lettera aperta per raccontare che cosa è successo davvero il 4 giugno 1989 e per farlo sapere anche «ai nostri colleghi che studiano in Cina» e che non possono conoscere «questa parte della nostra storia».
L’AUTOCENSURA. Il 26 maggio il Global Times, giornale semi-ufficiale del partito comunista cinese, ha criticato la lettera con un durissimo editoriale dal titolo: “Forze straniere tentano di fomentare le generazioni post-80 e 90″ contro la Cina. Lo scopo era quello di attaccare le «giovani generazioni», che criticano il partito comunista solo perché «hanno subito il lavaggio del cervello in paesi stranieri occidentali», ma il risultato è stata un’enorme pubblicità al “nemico”. In questo modo, tutti sono venuti a conoscenza della lettera e per questo il ministero della Propaganda ha subito dato ordine a tutti «i siti internet di cancellare immediatamente il commento del Global Times».
LA PERSECUZIONE CONTINUA. L’autogol del partito comunista dimostra quanto il massacro di piazza Tienanmen sia un argomento tabù, anche a 26 anni di distanza. Non a caso, ancora oggi il regime perseguita tanti di coloro che hanno partecipato alle manifestazioni e sono sopravvissuti alla repressione violenta. La lista «assolutamente non esaustiva», recentemente pubblicata da Chinese Human Rights Defenders, aiuta a farsi almeno un’idea.
VIETATO OPPORSI AI CARRI ARMATI. Yang Tongyan (54 anni), scrittore e storico, è stato in carcere dal 1990 al 2000 per «azioni controrivoluzionarie», cioè essersi opposto ai carri armati. Diventato attivista per i diritti umani, è stato incarcerato di nuovo nel 2006: dovrebbe uscire nel 2018. Xie Changfa (64 anni) ha passato due anni in campi di rieducazione attraverso il lavoro per aver parlato in diversi licei dell’Hunan a favore degli studenti nel 1989. Uscito, si è dedicato a promuovere la democrazia in Cina. Nel 2008 è stato arrestato di nuovo nell’ambito dell’operazione “Sicurezza Olimpiadi” e condannato per aver cercato di «sovvertire il potere dello Stato»: dovrebbe essere liberato nel 2022.
IL PREMIO NOBEL. Liu Xiaobo (60 anni), vincitore del premio Nobel per la pace nel 2010, ha passato 18 mesi in carcere per il ruolo giocato nel movimento studentesco. Fondatore del movimento pro democrazia “Charta ’08”, è stato condannato il 25 dicembre 2009 per aver «incitato a sovvertire il potere dello Stato»: dovrebbe uscire nel dicembre del 2020. Liu Xianbo ha passato 30 mesi in carcere per aver partecipato alla protesta di piazza Tienanmen. Uscito di prigione, si è dedicato a promuovere i diritti umani. Per questo è stato di nuovo imprigionato dal 1999 al 2009 e condannato nuovamente nel 2011 per «aver incitato alla sovversione del potere dello Stato»: dovrebbe tornare libero nel 2021.
UNA LUNGA LISTA. Chen Wei (arrestato nel 1989 e liberato nel 1991) è stato condannato di nuovo nel 2011 a 9 anni di carcere per aver pubblicato quattro articoli online sui diritti umani; Chen Xi, dopo i tre anni di carcere per essere sceso in piazza con gli studenti, è stato di nuovo arrestato e condannato nel 2011 ad altri 10 anni di carcere; Zhu Yufu, arrestato perché si era espresso a favore degli studenti nella città di Hangzhou nel 1989, è stato condannato nel 2012 a sette anni di prigione per essersi speso per la democrazia; Li Bifeng, dopo cinque anni di carcere per «propaganda controrivoluzionaria», è stato condannato di nuovo a 10 anni nel 2012. Per aver difeso i diritti umani, Zhang Lin è stato condannato nel 2014 a 42 mesi di carcere, Zhao Changqing a 30 mesi. La lista sarebbe ancora molto lunga, ma vale la pena ricordare solo gli attivisti che si trovano attualmente sotto processo per aver commemorato l’anno scorso in Cina il 25esimo anniversario di piazza Tienanmen: Gao Yu, Sheng Guan, Huang Fangmei, Jia Lingmin, Liu Diwei, Yu Shiwen, Pu Zhiqiang, Tang Jingling, Wang Qingying, Yuan Xinting, Jiang Lijun e Zhang Kun.
L’ULTIMO STUDENTE. Delle oltre 1.600 persone arrestate nel 1989 per «crimini controrivoluzionari» solo una è ritenuta essere ancora in carcere: Miao Deshun. Operaio di Pechino, è stato denunciato per aver lanciato un cestino contro un carro armato in fiamme. Condannato a morte, la pena è stata sospesa e commutata in ergastolo. Grazie a un successivo sconto, dovrebbe uscire il 15 settembre 2018, dopo 29 anni di prigione. Nessuno sa se sia ancora vivo. L’ultima persona che ha avuto sue notizie, un suo ex compagno di cella, ha dichiarato che dovrebbe essere stato trasferito nel reparto psichiatrico della prigione di Yanqing, costretto ad assumere psicofarmaci. «Non ha mai voluto ammettere di aver sbagliato, non pensava di dover essere rieducato. Le autorità lo trattavano come se fosse pazzo».
Leone Grotti
Tempi.it