Il Tibet oggi


Il sistema politico e l’attuale dirigenza

Il Tibet, come tutta la Cina continentale, è strettamente governato dal Partito Comunista Cinese presente con propri distaccamenti in ogni provincia, prefettura autonoma e nella Regione Autonoma Tibetana (TAR). Subordinato al Partito, il Governo ne porta a compimento le direttive. Nella sola Lhasa sono attivi oltre sessanta tra Dipartimenti e Comitati molti dei quali lavorano in stretto contatto con i rispettivi uffici nazionali a Pechino. L’autonomia della TAR è quindi del tutto inesistente: di fatto, la Regione gode di un’autonomia inferiore a quella delle altre province cinesi. E’ significativo che la massima carica del paese, quella di Segretario del Partito, non sia mai stata ricoperta da un tibetano.

Il Partito Comunista mantiene in Tibet un numeroso contingente militare di occupazione (almeno 250.000 uomini). Soldati e poliziotti – spesso in abiti civili – controllano le vie della capitale e degli altri centri urbani. Soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90, il Partito ha curato l’organizzazione di quadri fedeli alle sue direttive, destinati a controllare capillarmente il territorio tibetano, comprese le aree rurali, allo scopo di sradicare alla base ogni forma di separatismo e di eliminare ogni manifestazione di sostegno al Dalai Lama e al Governo Tibetano in Esilio.

Il Congresso Nazionale del Popolo, riunito a Pechino nel marzo 2003 per la nomina della nuova dirigenza cinese (ricordiamo che il neo Presidente della Repubblica Popolare, Hu Jintao, ricoprì la carica di Segretario del Partito nella Regione Autonoma Tibetana alla fine degli anni ’80) ha premiato con incarichi importanti alcuni leader di spicco che, nella passata legislatura, hanno svolto ruoli di primo piano in Tibet. E’ il caso di Zhou Yonkang, capo della Provincia del Sichuan all’epoca dell’arresto e della condanna a morte di Lobsang Dondhup e Tenzin Delek, ora assunto alla carica di Ministro della Pubblica Sicurezza, e di Chen Kuiyuan, ex segretario del Partito nella Regione Autonoma Tibetana negli anni ’90. Chen, sostenitore della “linea dura” e fautore delle tre campagne di “educazione patriottica”, “civilizzazione spirituale” e “colpisci duro”, è stato eletto membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese di cui figura tra i 24 vice presidenti. Promosso anche il tibetano Ragdi, uno dei vice segretari del Comitato del Partito Regionale Tibetano e presidente del Comitato Regionale del Congresso Nazionale del Popolo (CNP) in Tibet, che ha coronato la sua carriera politica divenendo uno dei 15 vice presidenti del Comitato Centrale dello stesso CNP. In Tibet, Ragdi, acceso sostenitore della politica iniziata dallo stesso Hu Jintao, non ha mai cessato di porre l’accento sull’importanza dello sviluppo economico e della tutela della stabilità sociale attraverso la lotta al separatismo e alla “clique” del Dalai Lama.

Queste “promozioni”, e abbiamo citato solo alcuni tra i casi più significativi, sembrerebbero indicare la determinazione del Partito e del governo di Pechino a mantenere il Tibet in una stretta morsa assicurando la continuità della linea politica.

Anche il cambio della guardia ai vertici della Regione Autonoma Tibetana sembra avvalorare questa tendenza. Alla carica di nuovo Presidente del Tibet, al posto di Legchok, è stato eletto Jampa Phuntsog, ex vice segretario del Partito e ora chiamato a svolgere un ruolo di governo. Legchok ha sostituito alla presidenza del Comitato Nazionale del Congresso del Popolo (la più alta carica della TAR) il tibetano Ragdi, trasferito a Pechino dopo 18 anni di servizio nella Regione Autonoma. Le nomine di Phuntsog e di Legchok premiano i lunghi anni di lavoro in Tibet dei due neo eletti e la loro conformità alle direttive del regime.

Segretario del Partito è un cinese, Yang Chuantang, che ha sostituito Guo Jinlong, eletto al prestigioso incarico nel 2000 al posto del “duro” Chen Kuiyang. Nessun tibetano è mai stato eletto segretario del Partito, ruolo che, di fatto, garantisce la gestione del potere. Yang Chuantang è ritenuto molto vicino a Hu Jintao che lo volle con sé quando era Segretario del Partito in Tibet.


Aggiornamento al 31.12.2012:

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Xi Jinping – cenni biografici

Il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese, svoltosi a Pechino dall’8 al 15 novembre 2012, ha designato Segretario Generale e capo della Commissione militare centrale del Partito Xi Jinping che, di conseguenza, subentra a Hu Jintao – in carica dal 2004 – nella carica di presidente della Repubblica Popolare Cinese.

Nato a Pechino nel 1953, Xi Jinping è figlio di Xi Zhongxun, grande amico di Deng Xiaoping e combattente comunista di ispirazione riformista caduto in disgrazia e finito in carcere durante la rivoluzione culturale. Fa parte quindi dei cosiddetti “principini”, i “Taizi”, come vengono designati i figli e i nipoti dei protagonisti della Lunga Marcia e della rivoluzione del 1949. E’ sposato con Peng Liyuan, sua seconda moglie dal 1987, una cantante di successo e membro dell’esercito popolare di liberazione.

Xi iniziò la carriera politica come burocrate all’interno del Partito al quale aderì formalmente nel 1974. Svolse vari incarichi in quattro diverse province: Shaanxi (1969-1975), Hebei (1982-1975), Fujian (1985-2002) e Zhejiang (2002-2007). Nel 2000 fu nominato governatore della provincia di Fujian e nel 2002 Segretario del Partito della provincia di Zhejiang ed entrò a far parte del Comitato centrale del Partito. Nel 2007 Xi Jinping fu designato a ricoprire la carica di capo del Partito a Shanghai ed entrò a far parte del potente Politburo. Nel 2008 divenne vice presidente della Cina e fu incaricato di presiedere alla preparazione delle Olimpiadi. Nel 2009 fu a capo del “progetto 6521”, volto ad assicurare la stabilità sociale durante le celebrazioni degli anniversari “politically sensitive” di quell’anno.

Al termine del XVIII congresso, sono stati ridotti da nove a sette i membri del Comitato Permanente, quello che governerà la Cina per i prossimi 10 anni. I membri sono: Xi Jinping, Li Keqiang, Zhang Dejiang, Yu Zhengsheng, Liu Yunshan, Wang Qishan, Zhang Gaoli. Il vicepremier uscente, Li Keqiang, è il “numero due” del partito e sostituisce il premier Wen Jiabao.

ella foto il nuovo presidente della Cina, Xi Jinping.

 


 

 La condizione dei tibetani

In Tibet la situazione rimane grave. Continua l’afflusso dei coloni cinesi che hanno ormai ridotto i tibetani ad una minoranza all’interno del loro paese, con una presenza di sette milioni e mezzo di coloni han contro sei milioni di tibetani. Le attività religiose e la libertà di culto sono fortemente ostacolate, proseguono gli arresti e le detenzioni arbitrarie e i detenuti sono percossi e torturati. Il “miracolo economico”cinese non reca alcun concreto vantaggio ai tibetani che sono progressivamente emarginati dal punto di vista sia economico sia sociale. Le stesse grandiose infrastrutture (gasdotti, ferrovie, aeroporti), volute dal governo di Pechino, non sono di beneficio alla popolazione tibetana: favorendo, di fatto, l’afflusso di nuovi coloni, costituiscono un’ulteriore minaccia alla cultura e alle tradizioni peculiari del paese oltre a comprometterne seriamente l’equilibrio ambientale.

Nonostante gli stretti controlli esercitati dalla polizia e dall’esercito, pacifiche dimostrazioni si susseguono sia all’interno della Regione Autonoma Tibetana, in particolare a Lhasa, sia nelle altre Regioni (Kham e Amdo).

Le autorità cinesi rispondono inasprendo imposizioni e divieti. Fonti attendibili hanno riferito che i giorni 11 e 12 novembre 2003, speciali “gruppi di lavoro” composti di funzionari governativi si sono recati nei villaggi e hanno intimato alla popolazione tibetana delle contee di Kardze e Lithang (Sichuan), composta prevalentemente da contadini, di consegnare tutte le fotografie del Dalai Lama entro un mese, pena la confisca della terra. Il 21 novembre, il governo tibetano in esilio ha definito questa misura “provocatoria” e ha accusato la Cina di volere deliberatamente esasperare la popolazione tibetana del Sichuan per poter pretestuosamente intervenire con la forza.
Dal 2001, la provincia del Sichuan, che in passato aveva goduto di una relativa libertà di culto, è divenuta uno dei punti focali della campagna contro il Dalai Lama e la religione. Tra le personalità di grande spicco oggetto della repressione cinese figurano Geshe Sonam Phuntsok (che attualmente sta scontando una pena detentiva di cinque anni), Tenzin Delek Rinpoche (condannato a morte dopo un processo farsa) e l’abate di Serthar, Jigme Phuntsok, deceduto il 6 gennaio 2004 a Chengdu dopo un’operazione al cuore. A lungo era stato trattenuto dalla polizia mentre il suo monastero era distrutto e i monaci e le monache allontanati con la forza.

Il gruppo d’informazione Tibet Information Network ha reso noto che il 29 agosto 2003 sei monaci residenti nella Contea di Kakhog, Prefettura di Ngaba, (Amdo) sono stati arrestati e condannati a pene detentive varianti da uno a dodici anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza del Tibet. Dopo l’arresto dei religiosi, avvenuto nel corso dell’annuale “Yak Festival”, il personale dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza ha fatto irruzione nella stanza di uno dei monaci ed ha confiscato numerose fotografie del Dalai Lama e una bandiera tibetana. T.I.N. rileva che questi arresti e le relative condanne costituiscono un fatto senza precedenti in Amdo e si inseriscono nella crescente ondata di repressione in atto nelle regioni al di fuori della Regione Autonoma Tibetana.

Anche nella Regione Autonoma continuano tuttavia gli arresti e le violenze. Il 2 dicembre 2004 si è appreso che Yeshe Gyatso, un tibetano di settantadue anni, ex funzionario governativo, arrestato a Lhasa nel giugno 2003 assieme a due studenti universitari, è stato condannato a sei anni di carcere.
Il 16 dicembre 2004, TibetNet ha diffuso la notizia della morte, in un ospedale di Shigatse, di Tenzin Phuntsok, sessantaquattro anni, arrestato il 21 febbraio 2003 perché sospettato di coinvolgimento in attività politiche “sospette”. I tibetani di Khangmar, suo paese natale, ritengono che Phuntsok, in ottima salute prima dell’arresto, sia morto in seguito alle torture subite durante gli interrogatori presso il centro detentivo di Nyari. Lascia la moglie e undici figli. La notizia della morte di Tenzin Phuntsog, giunta solo pochi mesi dopo quella della morte di un altro tibetano, Nyima Drakpa, le cui condizioni di salute si erano seriamente aggravate dopo le torture subite in carcere, propone il problema dell’effettivo rispetto da parte della Cina delle norme contenute nella Convenzione ONU Contro la Tortura, di cui Pechino è firmataria.
Il 16 dicembre 2003, il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha reso noto inoltre che Nyima Tsering, un insegnante sessantacinquenne, è stato condannato dal tribunale di Gyantse a cinque anni di carcere per “istigazione delle masse”. Il TCHRD ha fatto sapere che la sentenza contro Nyima, arrestato nel dicembre 2002 assieme ad un negoziante con l’accusa di aver divulgato libelli indipendentisti, è stata pronunciata nel giugno 2003. Il tibetano sta scontando la pena nella prigione di Drapchi, a Lhasa.


Aggiornamento al gennaio 2013

Sessant’anni di dominazione cinese non hanno piegato la resistenza dei tibetani. La dura repressione in atto in tutto il Tibet colpisce sia i monaci sia i laici: strettissima la vigilanza sui monasteri dove continuano le sessioni di ri-educazione patriottica durante le quali i religiosi sono costretti a rinnegare il Dalai Lama e a giurare fedeltà al Partito Comunista; il Dalai Lama, le cui foto sono bandite dagli altari dei monasteri e dalle abitazioni private, è accusato di separatismo e di istigare la popolazione del Tibet alla rivolta; è sistematicamente negata qualsiasi forma di libertà di espressione e di assembramento; i nomadi sono forzatamente trasferiti e ghettizzati in squallidi agglomerati urbani; è negato lo studio della lingua tibetana e il suo utilizzo nell’apprendimento delle materie scolastiche; tutto il paese è chiuso alla stampa e ai mezzi d’informazione.

Alle repressive scelte politiche del governo cinese, i tibetani hanno risposto, nel 1987, nel 1989 e nel 2008 – alla vigilia dei Giochi Olimpici di Pechino – con grandi movimenti di sollevazione di massa. Nel 2008 le manifestazioni, iniziate a Lhasa, nella cosiddetta Regione Autonoma, si sono rapidamente estese a tutto il Tibet. Centinaia i tibetani morti, arrestati o semplicemente “scomparsi”. Dal 2009 la resistenza tibetana sperimenta un nuovo tipo di lotta non violenta: le autoimmolazioni. Monaci e laici, uomini e madri di famiglia, teenager e ragazzi poco più che ventenni scelgono di darsi la morte con il fuoco in segno di protesta contro l’occupazione e la repressione. Sono ormai cento i tibetani che, chiedendo la libertà del loro paese e il ritorno del Dalai Lama, hanno scelto questa morte atroce nella speranza che il sacrificio delle loro vite scuota l’indifferenza della comunità internazionale. Accanto e assieme alle torce umane che drammaticamente infiammano il Tibet, tutta la società tibetana si sta mobilitando, sfidando le severe disposizioni cinesi volte a stroncare ogni forma di resistenza: significative le recenti manifestazioni di massa degli studenti tibetani e il diffondersi del movimento Lhakar.