Il bambino invisibile diventato leggenda

di Raimondo Bultrini
(La Repubblica – 25 aprile 2009)

Nessuno è in grado di dire se Gedhun Choekyi Nyima ha mai saputo delle manifestazioni che in tutto il mondo si tengono il 25 aprile, il suo compleanno, per chiederne la liberazione da una prigionia durata 14 anni. L’XI Panchen del Tibet scelto dal Dalai Lama avrebbe oggi vent’anni, e ne aveva solo sei quando sparì dal suo villaggio di Lhari, nella provincia di Nanghu, in Amdo, assieme a madre, padre e fratello maggiore.

Era il maggio del 1995, pochi giorni dopo la nomina che lo aveva reso celebre in tutto il mondo. La divinazione per la scelta del numero due del buddismo fu effettuata dall’attuale leader tibetano nella sua residenza d’esilio di Dharamsala, in India, all’inizio di quell’anno. Dopo elaborati rituali fece roteare tre palline di tsampa – farina d’orzo abbrustolita – dentro una grande scatola aperta, finché saltò fuori per tre volte lo stesso nome scritto in un minuscolo foglio impastato nell’orzo: Ghedun. Di lui circolarono subito le prime leggende, a cominciare dal miracolo avvenuto in grembo, quando recitò a sua madre un mantra sacro.

Ma Pechino non si lasciò certo commuovere dall’ondata di emozione che attraversò l’intero Tibet. Reagì alla notizia mobilitando tutto il suo apparato istituzionale. Cinquanta emissari raggiunsero Tashilungpo, storica sede dei Panche dal diciassettesimo secolo, e fecero arrestare il Lama che aveva effettuato i riconoscimenti in accordo con le indicazioni di Dharamsala, Chadrel Rinpoche. Al suo posto misero un laico che aveva partecipato alle storiche e crudeli sedute di “autocritica” contro il decimo Panche durante la Rivoluzione culturale, quando l’emanazione del “Buddha di Luce Infinita Amithaba” (questo il titolo del Panchen) fu costretto a marcire per anni nelle prigioni cinesi.

Poi prepararono una nuova lista di bambini tra i quali il figlio di due militanti del Partito, di nome Gyiancain, e la fecero approvare dai Lama fedeli. Molti si rifiutarono, ma nell’ottavo giorno dell’anno del Maiale di Legno (29 novembre 1995), tra prostrazioni ai Buddha e cerimonie, fu posta di fronte agli altari un’urna dorata che ha un valore storico importantissimo per la Cina. Venne infatti donata ai Reggenti del Tibet da un imperatore manchu nel diciottesimo secolo, proprio per infilarvi dentro non volgari palline di tsampa, ma dei bastoncini d’avorio con la stessa funzione divinatoria: la scelta del Dalai e del Panchen Lama. Secondo fonti del dissenso, quel giorno di 14 anni fa uno dei tre bastoncini era più lungo, per facilitare il compito del sacerdote che lo avrebbe estratto dall’urna d’oro. Gyiancain – si dice – era già pronto dietro a una tenda per fare la sua comparsa nella sala del tempio e ricevere l’investitura formale, davanti a Lama, dirigenti del partito e membri del governo.

Negli stessi giorni il povero Gedhun subiva una sorte assai diversa e ancora oggi misteriosa, diventando il più piccolo prigioniero politico del mondo. Sappiamo solo che, se fosse ancora vivo, oggi avrebbe un compito di tutto rispetto, forse il più alto, nella vertenza decennale che vede contrapposti tibetani e cinesi. Contrariamente a quanto molti sono portati a credere, è il Panchen Lama a determinare il primato spirituale del Tibet, poiché fu la sua divinità emanatrice Amithaba a irradiare di Conoscenza, e di potere temporale, il capostipite del Popolo delle Neci, chiamato dai tibetani Cenrezi (incarnato nell’attuale Dalai Lama). Non a caso i loro simboli sono quelli del Sole e della Luna, oppure del Padre e del Figlio, imprescindibili l’uno dall’altro. Il Dalai nomina il nuovo Panchen e viceversa, così che oscurando il Sole (il Panchen), la Cina intende fuori metafora privare la Luna – Dalai del suo potere.

Ma per i tibetani il Panche di Pechino non sarà mai quello vero e – ne sono certi – un giorno Padre e Figlio si riuniranno per sconfiggere con la loro unione le forze del Male che si incuneano come una gigantesca ombra tra i due astri.

Raimondo Bultrini
La Repubblica – 25 aprile 2009