Tibet islamico, la spina di Pechino

di Federico Rampini

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LA CINA è stata colta alla sprovvista dall’esplosione di rabbia nel “Tibet islamico”, la vasta regione dello Xinjiang popolata dalla minoranza etnica degli uiguri. Ma la reazione del governo di Pechino sarà più rapida, rispetto al ritardo di almeno 48 ore con cui scattò la macchina repressiva in Tibet nel marzo 2008. Sono sintomatiche le immagini televisive degli scontri a Urumqi (capitale dello Xinjiang): sono tutte riprese della tv di Stato Cctv, eppure sono di una violenza terrificante. Ai telespettatori cinesi non viene nascosto apparentemente nulla: i tg esibiscono sangue a cui l’opinione pubblica non è abituata quando si tratta di “casa propria”.
In realtà quelle immagini sono ben selezionate: si vedono solo dei cinesi Han aggrediti e feriti dai manifestanti. E’ il segnale che Pechino vuole fomentare molto rapidamente la reazione nazionalista degli Han (oltre un miliardo, la schiacciante maggioranza nella composizione etnica della Repubblica Popolare) contro gli uiguri (che sono otto milioni). Tanto più che lo Xinjiang è, proprio come il Tibet, un territorio dove una massiccia immigrazione Han sta alterando velocemente gli equilibri demografici con la popolazione di origine etnica locale.

La questione uigura in Occidente non ha mai avuto la stessa visibilità del Tibet. A causa della loro religione musulmana, gli abitanti dello Xinjiang non raccolgono le stesse simpatie dei buddisti tibetani in Europa e in America. Ma anche questa popolazione turcomanna subisce la dominazione cinese come un’occupazione di tipo coloniale. Le esplosioni di rivolta sono ricorrenti, e un anno fa alla vigilia delle Olimpiadi lo Xinjiang fu il teatro di attentati cruenti, compresa una strage di poliziotti cinesi.

Le organizzazioni indipendentiste – che definiscono lo Xinjiang “Turkmenistan orientale” – godono di importanti sostegni nelle popolazioni vicine: la regione confina con le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, anch’esse di religione islamica. Per Hu Jintao la questione uigura è una spina nel fianco nei rapporti col mondo islamico, dove la Cina spinge la sua penetrazione economica e strategica. E’ anche un imbarazzo serio in pieno G-8: il presidente cinese è venuto a Roma forte di un’economia vigorosa che ha evitato la recessione, e con una forza capitalistica che ne fa un investitore ambìto in tutti i continenti. Ma la carneficina dello Xinjiang alla vigilia del summit fa riesplodere con una visibilità mondiale le contraddizioni interne della superpotenza asiatica: lo squilibrio evidente tra il suo livello di sviluppo e modernizzazione economica, e le rigidità del suo sistema autoritario.