di Francesco Pullia
Lo hanno dipinto come un uomo solo, amato dalla sua gente, dai tibetani che lo chiamano Kundun, Presenza, riconoscendo in lui l’incarnazione del bodhisattva della Compassione, cioè di un essere supremo che, spinto da profondo amore per tutti gli esseri senzienti, ha scelto di tornare in questa vita per stare al nostro fianco e indicarci la via della liberazione dalle catene della sofferenza, del dolore. E di sofferenza e dolore, lui ne ha provato e ne prova tanto, ascoltando i racconti dei profughi che, sfidando prove inenarrabili, lo raggiungono in India, a Dharamasala. Stiamo parlando di Tenzin Gyatso, lett. Oceano di saggezza, XIV Dalai Lama del Tibet, un uomo che, nonostante il titolo altisonante e la straordinaria importanza religiosa e politica che gli si attribuiscono, si definisce semplicemente umile monaco buddhista e dal 1959, subito dopo l’invasione del suo stato da parte della Cina comunista (oltre un milione di morti e più di seimila monasteri distrutti), gira come una trottola per il mondo chiedendo, con un sorriso disarmante e insieme con fermezza, verità e libertà per un popolo vessato da inenarrabili angherie e ridotto, in seguito alla massiccia colonizzazione imposta dal governo di Pechino, al limite della sopravvivenza.
Nella propria terra, i tibetani sono ormai poco più di sei milioni rispetto a quasi nove milioni di cinesi. E questo sia a causa delle drastiche misure adottate dal regime cinese. Le donne tibetane sono sottoposte a sterilizzazioni e aborti forzati nonché a pesanti limitazioni nel caso in cui abbiano più di un figlio, sia di un preciso programma immigratorio.
E’ noto che, al di là dell’operazione di facciata, il completamento, tre anni fa, della Pechino-Lhasa, la più alta ferrovia del mondo, sia stato voluto esclusivamente per incrementare e facilitare l’ulteriore arrivo di cinesi in territorio tibetano.
Alla strisciante “pulizia” etnica si accompagnano lo stravolgimento ambientale dell’altopiano himalayano, il dissesto idrogeologico prodotto dal disboscamento selvaggio di vaste aree (il legname ovviamente è interamente diretto a Pechino), l’importazione di scorie nucleari radioattive, l’urbanizzazione incalzante che ha sconvolto la configurazione di città come Lhasa provocando tra l’altro, oltre alla corruzione, paurose sacche di povertà.
Si provi ad immaginare cosa può accadere se all’improvviso, al posto di un consolidato modello economico tradizionalmente basato sulla pastorizia (per lo più nomade) e sull’agricoltura, si imponga un altro improntato ad una realtà completamente differente. Come giudicare la repentina sostituzione delle coltivazioni d’orzo con quelle di riso?
Il Tibet non è più la culla entro cui, sotto la protezione di cime innevate, sono stati preservati gli insegnamenti secolari delle antiche scuole buddiste ma un inferno da cui si fugge, preferendo l’incognita della morte tra ghiacciai, impervi sentieri e spesso le raffiche dei cecchini militari ad una realtà di stenti e sopraffazione.
Mentre la Repubblica popolare cinese continua a commutare ed eseguire le pene capitali (le ultime riguardano quattro giovanissimi) nei confronti dei partecipanti alle proteste dello scorso anno facendo orecchie da mercante al ragionevole invito al dialogo reiteratamente proposto da parte del governo tibetano in esilio, il Dalai Lama è nuovamente in Italia per partecipare a Roma al quinto Congresso mondiale parlamentare sul Tibet, organizzato dall’Intergruppo per il Tibet presieduto dall’infaticabile deputato radicale Matteo Mecacci.
“Crediamo”, ha affermato lo stesso Mecacci, “che si tratti di una iniziativa urgente e tempestiva, data la situazione in Tibet e constatata l’ostinazione del governo cinese a non ascoltare il Dalai Lama, demonizzandone artatamente la figura ”.
Già, perché, alla proposta autonomistica prospettata dal Dalai Lama per il proprio stato, Pechino continua ad opporre un’agghiacciante silenzio.
Stanche di attendere vanamente i risultati della linea dialogante perseguita e giudicandola, a questo punto, fallimentare, le nuove leve tibetane, dentro e fuori il Tibet, cominciano, dal canto loro, a mostrare comprensibili segni di insofferenza.
Non è difficile immaginare lo scenario che si profilerebbe nella sciagurata ipotesi che la nonviolenza su cui insistentemente e convintamene poggia la politica della guida tibetana fosse, anche per un solo istante, sconfessata nei fatti da qualche frangia estremista.
Sicuramente è proprio quello in cui sperano i falchi cinesi per legittimare, nel deserto dell’informazione, il ricorso a quella “soluzione finale” di cui, più di una volta, ci sono state, purtroppo, drammatiche anticipazioni.
Perché ciò non accada mai e, anche tra gli stessi cinesi, prevalga la ragionevolezza è opportuno, necessario, non isolare il Dalai Lama e sconfessare il pavido, eccessivo, servilismo dimostrato dai governi occidentali nei confronti delle arroganti minacce che puntualmente, in occasione di ogni viaggio del leader tibetano, vengono da Pechino.
Lungi dal dimostrarsi un capestro, l’economia può rivelarsi un’opportunità da non sprecare per spingere la Cina verso una svolta sul piano dei diritti civili al suo interno, in Tibet o nello Xinjigang di Rebiya Kadeer e della minoranza uigura. Basta solo volerlo, avere il coraggio di crederci fermamente.
“Cambiare il corso della storia senza ricorrere alla violenza: è quanto auspico da sempre”, ha affermato il Dalai Lama ribadendo, tra l’altro, in una recente intervista, la sua sincera amicizia con Marco Pannella. E i radicali, da sempre sostenitori della causa tibetana, nella mozione generale del loro congresso italiano conclusosi domenica scorsa a Chianciano, hanno da parte loro insistito sull’importanza di perseverare, per il Tibet, in una rivendicazione autonomistica e non indipendentistica, di un’autonomia da perseguire sull’esempio istituzionale dello statuto del Sud Tirolo-Alto Adige.
D’altronde, presentando il libro di Eva Pföstl emblematicamente intitolato La questione tibetana (ed. Marsilio), il Dalai Lama ha scritto, in singolare concordanza con il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi, Colorni, che l’autonomia, piuttosto che la sovranità, dovrà divenire il principio fondamentale per l’organizzazione delle comunità politiche, per una cooperazione tra stati a livello sovranazionale che sia combinata con una maggiore decentralizzazione e devoluzione di poteri e responsabilità.
Se i tibetani avranno successo, il risultato conseguito potrà essere modello e ispirazione per tutti gli altri popoli che cercano maggiore libertà nella sicurezza e nella dignità. Utopia? Vent’anni fa sembrava impossibile che a Berlino crollasse il muro…