Tra i mesi di settembre e ottobre 2017, Chiara Crotti e Luca Perotto, due ragazzi di Bergamo studenti di medicina presso l’Università la Bicocca di Milano, hanno avuto l’opportunità di trascorrere quarantacinque giorni a Dharamsala e di approfondire lo studio della medicina tibetana presso il Delek Hospital. Riceviamo e volentieri pubblichiamo il racconto e le riflessioni di Chiara sulla sua esperienza e l’incontro con la realtà dei profughi tibetani nella “piccola Lhasa”.
Quando sono partita per Dharamsala, lo scorso settembre, non avevo ben chiaro il contesto in cui mi sarei trovata a vivere per un mese. Nei mesi precedenti la partenza, da studente di medicina in Exchange, mi ero soffermata a pensare quasi esclusivamente a ciò che avrei visto, imparato in ospedale, raramente mi ero seriamente preoccupata di come sarebbe stato tutto il resto. Così, quando per la prima volta aprii la porta dell’appartamento che io ed il mio collega Luca avevamo affittato, mi resi conto che non sarebbe stata esattamente una passeggiata. Gli standard di pulizia erano scadenti ma ce lo aspettavamo, le finestre non si potevano aprire e l’odore di stantio impregnava i mobili. Niente frigo o fornelli, il wc era da riempire con il secchio. Immediatamente ci rendemmo conto che avremmo dovuto fare la doccia praticamente seduti sulla lavatrice poiché questa era posta esattamente sotto il soffione dell’acqua.
Al di fuori del nostro alloggio la situazione non ci apparve più confortante. Stanchi dopo più di 24 ore di viaggio, chiusa la porta di casa con chiavistello e lucchetto, ci inerpicammo lungo la stradina che portava al centro del paese. Caos. Taxi, tuc-tuc e motorini sfrecciavano tra le viette strette affollate di monaci, turisti, cani, asini, capre e scimmie. Decidemmo di fare la spesa giusto per assicurarci la colazione. I negozi erano piccoli locali zeppi di prodotti di qualsiasi tipo. Cozzava scorgere sugli scaffali barattoli di Nutella o barrette Mars tra scatole di alimenti con nomi impronunciabili e mai visiti prima di allora. Eppure Dharamsala era così: sorprendente. Potevi trovare negozi con abiti di noti brand o scarpe alla moda ma ti bastava spostare appena lo sguardo per ritrovare la carne della macelleria (bugigattolo in mattoni) esposta direttamente sul pavimento accanto a ferri arrugginiti. Potevi incantarti a guardare i monaci pregare scalzi pensando a quanto fosse antica la loro cultura ed un attimo dopo stupirti di vederli infilare fiammanti scarpe da corsa fluorescenti.
Forse eravamo troppo ingenui eppure continuava a sembrarci una realtà così diversa da quella cui eravamo abituati. Ad essere onesta però, a lasciarci più perplessi, era soprattutto il comportamento della popolazione locale.
In ospedale seguivamo ogni giorno l’operato dei medici. La giornata lavorativa iniziava con un minuto di meditazione in apertura della riunione di aggiornamento sui pazienti presenti in corsia; seguiva il giro in reparto con il medico di turno e, al termine, io e Luca scendevamo per lo più nell’ambulatorio riservato ai pazienti esterni.
A seconda del medico di giornata i nostri compiti potevano variare dall’accoglienza dei pazienti, alla semplice osservazione e studio dei referti, alla prescrizione di ricette e analisi, alla vera e propria visita con anamnesi ed esame obiettivo.
La lingua a volte poteva rappresentare un problema in quanto, a parte qualche vocabolo base come “respiri”, “buongiorno”, “si sieda”, il tibetano era pressoché incomprensibile per noi. Tuttavia la quasi totalità dei giovani parlava un buon inglese ed i medici pure, sicchè visitare i pazienti non costituiva un ostacolo così insormontabile. Per nostra fortuna erano anche presenti in ospedale alcuni studenti della scuola di medicina locale che, come noi, svolgevano tirocinio. La loro presenza è stata fondamentale per apprezzare appieno quest’esperienza: in cambio di spiegazioni sulla medicina occidentale si proponevano come interpreti permettendoci così di essere abbastanza autonomi. Grazie a loro abbiamo imparato molto riguardo la medicina tibetana, così diversa dalla nostra, affascinante e ricca di storia. Non è stato facile entrare nell’ottica che sia possibile visitare interamente un paziente tastandogli esclusivamente polsi con la punta di sei dita e osservando la schiuma prodotta dall’urina. Non meno agevole è stato capire come, in ognuno di noi, convivano “forze” di natura diversa in percentuali differenti e come queste condizionino il nostro essere e il nostro stato di salute. Non è stato semplice ma ci abbiamo provato fino alla fine!
In ospedale, sebbene fossimo semplici studenti, giovani ed impacciati nella nuova situazione, i pazienti e le loro famiglie si rivelarono estremamente fiduciosi nei nostri confronti. Tutti, a cominciare dallo staff, furono con noi da subito cordiali, disponibili e collaborativi per quanto più potevano. Rispetto e gratitudine sono le prime parole che mi vengono in mente per descrivere l’atteggiamento dei tibetani verso il personale ospedaliero, a qualunque livello. E pensare che da noi non è più tanto frequente riscontare certe caratteristiche…
Eppure, nonostante questo clima di gentilezza quasi surreale, qualcosa non ci convinceva: come dicevo, ci risultava difficile capire esattamente quale fosse la natura di questo popolo. Al di fuori dell’ospedale, il resto delle persone ci trattava in un modo percepibilmente e forzatamente cordiale. E’ una sensazione difficile da esprimere ma proverò a spiegarmi meglio. In qualsiasi locale entrassimo attaccare bottone con qualche straniero era così naturale, bastava una semplice battuta. Capitava spesso di condividere il tavolo con viaggiatori sconosciuti, si cenava insieme chiacchierando e scambiandosi idee. In questo modo abbiamo conosciuto tante persone di nazionalità diverse e scoperto un po’ della loro storia. Tuttavia se da un lato avvicinarsi a persone straniere incontrate per la prima volta era tanto semplice, dall’altro stabilire un contatto con la popolazione locale che si vedeva quasi quotidianamente per la spesa o la cena era difficile: sebbene cercassimo di essere sempre i primi a salutare e a sorridere, non riuscivamo a spingerci oltre un loro formale saluto di risposta. C’era sempre un velo di buio nei loro occhi che non riuscivamo proprio ad interpretare. Forse non gli andavamo a genio o magari erano solo timidi. Che fosse tristezza? Può essere, ma per cosa? Presto trovammo la nostra risposta.
Il primo weekend libero decidemmo di dedicarlo a qualche visita. Di ritorno dalla passeggiata alla cascata ci fermammo al Museo del Tibet e lì, benché conoscessimo già a grandi linee la storia tibetana, scoprimmo cose che davvero non ci saremmo mai immaginati. Tutti, bene o male, sanno dell’occupazione del Tibet da parte della Cina agli inizi degli anni ‘50, di come la popolazione tibetana iniziò a lasciare la propria terra nel 1959, a seguito delle inutili trattative per trovare un compromesso di convivenza data la enorme differenza delle forze in campo e della repressione cinese a seguito della fuga in esilio del Dalai Lama seguito da oltre 100mila tibetani nei mesi successivi. Essi lo fecero attraversando a piedi la catena dell’Himalaya prevalentemente in direzione dell’India. Sulle cime che ogni giorno, uscendo di casa, vedevamo attorno a noi, migliaia di persone persero la vita, gli arti, la vista a causa del gelo e della neve fuggendo da una dittatura determinata a privarli della loro identità.
Ciò che però forse si sa meno è che questa repressione sta andando avanti ancora oggi. Ora come allora, nell’altopiano del Tibet, i cinesi stanno cercando di estirpare un’intera coltura nel silenzio generale. Il partito controlla capillarmente anche le pratiche religiose, torturano chiunque si ostini a mantenere il proprio credo al di fuori dell’atteggiamento “patriottico” che Pechino pretende, con percosse, prigionia e scariche elettriche anche nelle zone più delicate.. Uccisioni e imprigionamenti arbitrari sono la norma. Persino la lingua tibetana è di fatto annientata, così come lo sono la bandiera e qualsiasi raffigurazione di S.S. il Dalai Lama. Ogni cittadino è obbligato ad esporre sulla propria casa la bandiera della repubblica popolare cinese.
La repressione non si limita a divieti o alla costruzione di recinti di filo spinato attorno alle cittadine con militari e carrarmati per le strade a vigilare sul rispetto delle regole. I tibetani sono a poco a poco spodestati delle loro attività commerciali. Cacciati dal governo dalle loro proprietà, vengono rimpiazzati da cittadini cinesi e, di conseguenza, si trovano costretti a subire l’umiliazione di diventare dipendenti laddove prima erano titolari. Non solo dipendenti ma quasi servi di un regime che propaganda da sempre “la liberazione del Tibet dalla schiavitù feudale dei lama”. Osservammo foto di annunci di lavoro in cui, per un identico incarico, si offrivano due salari differenti a seconda dell’etnia: uno per cinesi e uno, incredibilmente inferiore, per tibetani. La promessa di nuovo lavoro e di ricchezza incentiva ogni anno gruppi considerevoli di cinesi a trasferirsi nelle terre tibetane, sicché la “sostituzione” continua.
Anche la scuola sta iniziando ad essere manipolata. I libri di testo in lingua endemica non soltanto sono stati banditi dai banchi di scuola ma addirittura lo studio della storia tibetana è stato cancellato dai programmi d’insegnamento per essere sostituito con quello della storia cinese. Il progetto non è quindi esclusivamente quello di riappropriarsi delle antiche terre, l’obiettivo è di eradicare una cultura, di cancellare l’identità tibetana. Nei nostri giorni a Dharamsala sentimmo parlare anche di un altro fatto sconcertante, tanto crudele da farmi sperare vivamente di aver frainteso quanto ci venne raccontato. Ci dissero che ad oggi, sotto il dominio cinese, le donne tibetane in attesa di bambine vengono costrette dalle autorità ad abortire perché sarebbe proprio il sesso femminile ad essere ritenuto responsabile di una perpetuazione di una cultura tanto odiata. Che quest’ultimo dato sia vero oppure no, mi sembra che in ogni caso, gli elementi riportati fino ad ora siano comunque sufficienti per chiedersi da dove possa derivare tanto odio. E’ vero, la rivalità tra le due etnie confinanti in diversi momenti della storia è stata aspra. Ed è vero che la Cina ha esercitato nei confronti del Tibet una forma di protettorato durante la dinastia manciù dei ‘Ching dalla fine del XVII secolo fino al 1911 e che da allora fino al 1950 il Tibet fu uno stato completamente indipendente. E che l’occupazione cinese fu allora giudicata da diverse risoluzioni delle Nazioni Unite come totalmente illegittima. Ma ciò è sufficiente a giustificare tanta efferatezza?
Ed io, che ho studiato per tanti anni a scuola la shoah e ho visto ripresentati in tv ogni anno film sugli ebrei, mi chiedo come il resto del mondo possa restare in silenzio. Si fa tanto i moralizzatori enfatizzando come la giornata della memoria debba servire a sviluppare una coscienza globale in modo che cose simili non accadano mai più e poi… ci si fa zittire da interessi commerciali. Perché alla fine questa è la ragione di tanta omertà. Si preferisce mandare in onda servizi sul pelo dell’alluce della star X piuttosto che dedicare due minuti ad informare davvero. Andare contro ad una grande potenza come la Cina potrebbe far perdere molto, difendere la comunità tibetana cosa potrebbe far guadagnare?
Indignata, me lo sono chiesta il giorno in cui Dottor Tsundue ci ha chiesto di seguirlo per aiutarlo a svolgere alcune visite. Proprio non ci aspettavamo che i nostri pazienti sarebbero stati un gruppo di uomini appena arrivati a Dharamsala dal Tibet, fuggiti e arrivati lì a piedi.
Li screenammo per la TBC e li vaccinammo per l’epatite. Parlavano poco anche perché, essendo di zone differenti, i vari dialetti interferivano con la comunicazione. Mentre li visitavo avevo i brividi a pensare al viaggio che avevano appena affrontato, a quello che potevano aver visto. Avevo i brividi ad avere davanti la prova che quello che avevamo sentito raccontare al museo fosse vero. Ancora di più mi lasciò senza parole scoprire che Youdon, tirocinante mia coetanea cui eravamo maggiormente affezionati, aveva una storia analoga. Circa 15 anni fa, insieme ai suoi fratelli ed altri bambini era stata caricata di nascosto dai genitori su di un camion diretto fuori dal Tibet. Aveva poi camminato per giorni prima di arrivare a Dharamsala mentre sua sorella, di qualche anno più grande, si era sempre occupata di lei e dei suoi fratelli. Come Youdon anche altri, tra medici ed infermieri, lasciarono i genitori in Tibet anni prima. All’epoca i telefoni non erano ancora diffusi ed anche se oggi la tecnologia è in grado di raggiungere pressocché qualsiasi angolo di mondo, praticamente nessuno di loro è più in grado di rintracciare i propri cari. Ciascuno degli abitanti di quel paese ha sperimentato personalmente o ha almeno un parente, un conoscente, che abbia vissuto una simile sofferenza. Ci si potrebbe provare a consolare pensando che, quantomeno, siano stati fortunati a riuscire a scappare; che a differenza di altri siano sfuggiti ai cecchini cinesi che pattugliano i confini. Hanno avuto la possibilità di ricominciare una nuova vita ma la vita da rifugiati non è mica facile come si pensa!
Scappare dai cinesi vuol dire partire di nascosto abbandonando tutto: affetti e averi.
Vivere da rifugiati per i Tibetani significa essere figli di nessuno. Non possiedono documenti cinesi ma allo stesso tempo i loro vecchi certificati tibetani hanno perso valenza. Questo implica che, senza documenti d’identificazione, siano impossibilitati a sottoscrivere qualsiasi atto di proprietà, non possano viaggiare o iscriversi a determinate scuole. Esattamente come me e Luca, il figlio del direttore dell’ospedale, Dottor Dawa, sogna di fare il medico. Ci raccontò che più volte aveva provato ad entrare in diverse università europee nell’ultimo periodo ma che era sempre stato rifiutato per motivi amministrativi. Proprio nei giorni in cui frequentavamo il Delek Hospital ricevette l’ennesimo rifiuto: malgrado avesse passato tutte le selezioni, l’università avrebbe dovuto rifiutare la sua candidatura per l’incompletezza dei documenti in suo possesso. Certo, avrebbe potuto risolvere l’inconveniente chiedendo la cittadinanza al paese ospitante e divenendo a tutti gli effetti indiano ma che ne sarebbe stato delle sue origini? Se avesse scelto la via più facile avrebbe fatto esattamente quello che i cinesi si auspicano. Se tutti loro rinunciassero all’appellativo di tibetani per diventare cittadini di altre nazioni, i cinesi avrebbero vinto. La cultura tibetana cesserebbe di esistere. L’impegno è invece quello di sopportare sacrifici e rinunce affinché venga preservata almeno una traccia di quella antica cultura che stanno cercando di spazzare via. Da parte dei rifugiati la dedizione a questa causa è così forte che, soprattutto medici ed insegnanti, scelgono di separarsi dalle loro famiglie mandando, a malincuore, mogli e figli all’estero per assicurare loro una vita migliore e restando invece da soli a Dharamsala ad aiutare la loro gente. I numerosi volontari che vengono a prestare servizio per qualche tempo non sono sufficienti.
Senza sanità ed istruzione come potrebbe sopravvivere la comunità?
Ecco dunque che, dopo aver conosciuto la storia di questa gente ed aver toccato con mano la realtà, non ci stupiva più l’atteggiamento dei tibetani. Comprendevamo il velo di malinconia sui loro volti e la riservatezza. Non era più un mistero il distacco verso i turisti stranieri, rappresentanti di un mondo che sa vedere solo ciò che gli fa comodo. Dopo un paio di settimane capimmo come bastasse essere visti in ospedale perché comprendessero che non eravamo semplici turisti di passaggio ed iniziassero a fermarci per strada per salutarci. Era stato sufficiente che sapessero che eravamo li per aiutare e per imparare, non solo di medicina ma della loro storia, perché si aprissero a poco a poco e ci mostrassero quanto più potevano.
Ricordo con il sorriso la pausa tea con le infermiere, i pranzi domenicali organizzati nel cortile dell’ospedale, i discorsi con cui il Dottor Dezel cercava di rassicurarci e infonderci speranza per il nostro futuro. La Dottoressa Ighshu e le sue lezioni su come cercare di evitare gli attacchi delle scimmie. I congressi a cui ci hanno invitati. Le lezioni che ogni giorno il Dottor Tsetan La, medico del Dalai Lama, teneva per noi dopo l’orario di lavoro affinché non andassimo mai a casa senza aver imparato almeno una piccola cosa ogni giorno, fosse essa di medicina o un insegnamento di vita. Lo avremmo ascoltato per ore raccontare della filosofia buddista, difficilmente credo si possa trovare tanta saggezza in una sola persona.
Sebbene all’inizio non sia stato facile abituarsi alla nuova realtà, gli insegnamenti che abbiamo portato a casa da questa esperienza sono stati immensi. Ringrazio chi mi ha spinto ad intraprendere un viaggio del genere e chi ha permesso che si realizzasse, in modo particolare Luciano Moscheni e il presidente dell’Associazione Italia-Tibet Claudio Cardelli.
L’ultimo ricordo che ho di Dharamsala è l’anziana signora che abitava nell’appartamento accanto al nostro. Ogni pomeriggio si sedeva sul ballatoio del palazzo a contemplare il panorama. Ci vollero giorni perché rispondesse al nostro saluto in stentato tibetano e settimane perché ci salutasse per prima ma alla fine conquistammo anche lei e, come tutte le nonne del mondo, a fine giornata ci chiedesse sempre come era andata a “scuola”. O almeno così piace a credere a me perché, a parte i grandi sorrisi e il nome dell’ospedale, di quei discorsi in tibetano non capivamo proprio nulla. Quindi sì, l’ultimo ricordo è per lei che il giorno della partenza, accortasi del movimento, ha mandato le figlie ad aiutarci a caricare le valigie ed è rimasta affacciata al balcone a salutarci con la mano fino a che la macchina è sparita dalla sua vista. La nostra nonna tibetana.
Chiara Crotti