Un satyagraha di massa per il Tibet

di Francesco Pullia

Può il Tibet stare nella Cina come il Sud Tirolo-Alto Adige nel nostro Stato? Il quesito, non privo di risvolti shakespeariani, si ripresenta ogniqualvolta capiti di ascoltare il Dalai Lama e la sua proposta di soluzione di una vicenda che si protrae ormai da quasi sessant’anni, da quando cioè le truppe della Cina comunista, in aperta violazione del diritto internazionale e, diciamolo pure, nel pieno disinteresse dei governi occidentali, invasero il Paese delle Nevi sotto la spinta della rivoluzione maoista. Entusiasta della recente visita a Trento e Bolzano, la guida tibetana in esilio ha affermato che se anche per il Tibet venisse adottata una soluzione autonomistica “si produrrebbero benefici per tutti, tibetani e cinesi”. Ed ha aggiunto, con un po’ di amarezza: “Sono ormai anziano. Non so quanto mi resti da vivere, altri dieci o al massimo vent’anni. Non ho nulla da chiedere al governo cinese che mi riguardi personalmente, sono solo un umile monaco e posso continuare a rimanere fuori dal mio paese. Ciò che, invece, mi preoccupa è la sorte di sei milioni di tibetani. Se, con la loro nonviolenza, fallissero, ad essere sconfitto sarebbe il mondo intero.  Facciamo tesoro dei disastri commessi nel secolo scorso, dei 200 milioni di morti, per impegnarci a tramutare il XXI secolo nel secolo della nonviolenza”.

A differenza della scelta nonviolenta che è sempre stata una costante dell’azione politica del Dalai Lama, tanto da spingerlo a scoraggiare la via della resistenza armata intrapresa, all’indomani dell’invasione, dai fieri guerriglieri khampa (“vedevo crescere la collera del mio popolo e sapevo che i khampa avrebbero combattuto fino alla morte per la libertà, ma sapevo anche che con la violenza non avremmo ottenuto nulla”), la prospettiva autonomistica è stata lanciata solo nell’ultimo ventennio.

Il 21 settembre 1987, davanti alla Commissione per i Diritti Umani del Congresso degli Stati Uniti d’America, il Dalai Lama presentò un Piano di Pace in Cinque Punti, la cosiddetta via di mezzo, quale realistica proposta sulla cui base intavolare trattative con il governo della Repubblica Popolare Cinese. Si chiedeva la trasformazione del Tibet in una zona di pace, la fine dei massicci trasferimenti di popolazione di etnia cinese in Tibet, il ripristino dei fondamentali diritti umani e delle libertà democratiche, l’abbandono da parte della Cina dell’utilizzo del territorio tibetano per la produzione di armi nucleari e lo scarico di rifiuti radioattivi e, infine, si auspicava l’avvio di “seri negoziati” sul futuro del Tibet.

L’anno seguente, il 15 giugno 1988, nella sede di Strasburgo del Parlamento Europeo, nella speranza di trovare un accordo con i cinesi dopo l’ennesimo massacro avvenuto a Lhasa la primavera di quell’anno, fu rielaborato il quinto punto del Piano di Pace rinunciando di fatto alla rivendicazione dell’indipendenza: “L’intero territorio del Tibet conosciuto come Cholks-Sun (comprendente U-Tsang, Kham e Amdo) dovrebbe divenire un’entità politica democratica autogovernantesi, basata sul diritto in virtù del consenso del popolo, per il bene comune e la protezione di se stesso e del suo ambiente, in associazione con la Repubblica Popolare Cinese. Il governo della Repubblica Popolare dovrebbe rimanere responsabile della politica estera tibetana. Il governo del Tibet potrebbe tuttavia stabilire e mantenere relazioni internazionali per quanto concerne la religione, il commercio, l’educazione, la cultura, il turismo, la scienza, lo sport e altre attività non politiche, attraverso un suo Ufficio per gli Affari Esteri”.

In sostanza alla richiesta dell’indipendenza si sostituì quella del riconoscimento dell’autonomia sociale, politica, religiosa e culturale.

Dopo il conferimento del premio Nobel per la pace, nel 1989, numerose risoluzioni parlamentari approvate in tutto il mondo e anche in Italia hanno condannato la violazione dei diritti umani in Tibet e chiesto alla Cina di avviare concreti negoziati per una soluzione pacifica del problema. Il vero problema sta, però, nel fatto che la Cina continua a mostrarsi completamente sorda e cinicamente indifferente. Finora non solo tutti i tentativi di dialogo sono andati a monte ma tanto più il Dalai Lama ha perseverato nella sua posizione autonomistica, tanto più Pechino ha risposto con l’intensificazione della morsa repressiva.

Che fare, dunque?

Secondo Piero Verni, uno che di Tibet se ne intende, autore tra l’altro di una biografia autorizzata dal Dalai Lama, “sperare oggi in un vero dialogo con Pechino è una perdita di tempo. L’unica cosa sensata da fare è appoggiare concretamente, e in tutti i modi possibili, quanti all’interno e all’esterno del territorio della Repubblica Popolare Cinese lottano per un autentico cambiamento. O quanto meno per creare solide basi affinché un tale cambiamento possa avvenire in tempi non biblici. La storia pluridecennale del comunismo cinese dimostra che, dal punto di vista delle libertà civili, il regime non è riformabile. Il Dalai Lama farebbe meglio ad impugnare simbolicamente il piccone della resistenza nonviolenta per iniziare a far cadere qualche mattone del muro di Pechino. Gandhi non ebbe mai tentennamenti né scese mai a compromessi, voleva fermamente il “Purna Swaraj”, vale a dire la “completa indipendenza” dell’India.

A queste considerazioni, diversi ne contrappongono altre, facendo notare che è insensato parlare di indipendenza, considerata già la difficoltà di fare accogliere ai cinesi la semplice idea di un’autonomia. La vera via di mezzo probabilmente sta nell’accompagnare la richiesta del Dalai Lama con un inflessibile satyagraha di massa alla stessa stregua dell’azione gandhiana nell’India dominata dagli inglesi.

E’ vero, infatti, che i cinesi non sono gli inglesi e hanno una storia giuridica del tutto differente. Tuttavia, se l’occidente, anziché tacere o accennare timidamente ai diritti civili per poi dimenticarsene al momento di concludere vertiginosi affari con il Dragone cinese, comprendesse che la questione tibetana lo riguarda e coinvolge più di quanto possa immaginare, allora le cose prenderebbero sicuramente una piega diversa. Ci si riuscirà a farlo capire? “Il mondo deve aiutarci a lanciare un segnale molto forte”.

Samdhong Rimpoche, primo ministro del governo tibetano in esilio, diversi anni fa non mancò di sottolineare che “se la via della verità e della nonviolenza è veramente potente, deve essere in grado di vincere ogni ostacolo. Qualora dovesse misurarsi con una brutalità sfrenata, saprà necessariamente diventare più potente. Il fatto che l’invasore sia più rude non significa che abbia una forza maggiore”. E aggiunse: “se dovremo essere del tutto distrutti, è meglio esserlo mentre si mette in pratica il satyagraha, per il diritto e la giustizia. Non ci resta nient’altro che attuare il nostro dovere”.

Notizie Radicali

23 novembre 2009