Per fronteggiare le conseguenze del rapido processo di scioglimento dei ghiacciai, Pechino ha costruito e sta costruendo un impressionante numero di dighe che mettono a repentaglio non solo l’ambiente ma anche il regolare rifornimento idrico delle popolazioni che vivono a valle. Per proteggere le praterie dal processo di desertificazione, Pechino intende spostare più di due milioni di nomadi tibetani in villaggi prefabbricati, modificando il sistema di vita che per millenni queste popolazioni hanno condotto sul Tetto del Mondo, sistema di vita che, lungi dal provocare la distruzione dell’ecosistema, ha invece contribuito alla sua conservazione.
“Tibet, il Terzo Polo” è un gruppo formato da tibetani e da loro sostenitori in tutto il mondo con lo scopo di portare la voce del Tibet alla conferenza ONU sui cambiamenti climatici che si terrà a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre 2009. Il gruppo intende riaffermare il fondamentale diritto umano di oltre due milioni di nomadi a vivere nei loro pascoli e decidere del loro destino e del loro futuro partecipando attivamente a tutte le decisioni riguardanti le politiche ambientali sul loro territorio. A “Tibet, il Terzo Polo” hanno aderito scienziati e studiosi tibetani, cinesi e occidentali, ricercatori specializzati sul tema dello sviluppo sostenibile, attivisti e oltre 170 gruppi di sostegno al Tibet. Il gruppo ha partecipato a tutte le conferenze preparatorie che hanno preceduto il vertice di Copenhagen dove sarà presente un team composto da tibetani e occidentali che si batteranno per portare il problema della crisi ambientale del Tibet all’attenzione dei negoziatori, dei media e della pubblica opinione.
CLIMA SENZA FRONTIERE
Il trasferimento forzato delle famiglie nomadi tibetane da parte della Cina riguarda tutti.
Un articolo di Roy-Arne Varsi – The Norwegian Tibet Committee & Tibet Third Pole
Nel marzo del 1998, Qi Jingfa, allora Ministro dell’agricoltura del governo cinese, annunciò che era obiettivo della politica del governo centrale “porre fine allo stile di vita nomade di tutte le famiglie di pastori entro la fine del secolo”. Il governo cinese ha mancato termine prefissato, ma è comunque a buon punto nello sradicare completamente lo stile di vita e la cultura dei pastori nomadi. I nomadi costituiscono circa il 15% della popolazione tibetana.
Cifre pubblicate in Cina mostrano che l’89% – circa 100.000 unità – delle famiglie tibetane nomadi legate alla pastorizia, sono state costrette ad abbandonare le aree del Qinghai-Tibet per andare a vivere in piccole abitazioni nella regione Sanjiangyuan. Secondo il governo cinese, il trasferimento è attuato per proteggere le praterie dal pascolo eccessivo allo scopo di prevenire la desertificazione. La preoccupazione non è infondata. A causa dei cambiamenti climatici, i grandi ghiacciai del Tibet hanno iniziato a sciogliersi a velocità record e tutti gli oltre mille laghi hanno cominciato a prosciugarsi. Dove prima c’erano ampi pascoli rigogliosi, ora è quasi deserto. Inoltre, la Cina vive la peggiore siccità degli ultimi 50 anni. Il fiume Giallo, il fiume Azzurro e il Mekong hanno origine in Sanjiangyuan; questa zona è attualmente vittima di siccità e le autorità cinesi individuano la causa della riduzione del flusso di questi fiumi, oltre che nei cambiamenti climatici, nei pascoli sulle praterie dell’altopiano Himalayano, che contribuiscono a degradare l’ecosistema della regione.
Come può essere che un’antica cultura nomade rappresenti ora una minaccia ecologica? Se si prendesse la briga di esaminare la direzione assunta delle politiche cinesi in Tibet nel corso degli ultimi cinquanta anni, risulterebbe subito chiaro che non sono i nomadi a rappresentare una minaccia per l’ecosistema, ma le scelte del governo cinese stesse.
Tra il 1958 e il 1976 fu applicata la riforma agricola di Mao Zedong, da egli definita “teoria collettiva”. Questa mirava a insediare un maggior numero di agricoltori nel Paese, allo scopo di assicurare alla popolazione i bisogni di prima necessità. A causa di questa riforma, ampie zone coperte da foreste e praterie furono convertite in terreni coltivabili. Tra il 1976 e il 1999 la Cina ha intensificato questa politica, sotto la guida di Deng Xiaoping. Lo scopo era quello di aumentare la produzione agricola, ma paradossalmente oggi gran parte dei terreni sono stati messi a riposo: lo sfruttamento intensivo dei terreni ne ha indotto l’impoverimento, rendendoli improduttivi. In altre parole, la riforma agricola cinese in Tibet è stata un fallimento. Inoltre, sono in corso molti progetti e attività di estrazione mineraria e sviluppo infrastrutturale ad alto impatto inquinante. È il governo cinese ad aver provocato l’attuale squilibrio ecologico in Tibet, di cui ora vengono invece accusati i nomadi.
E se le autorità cinesi avessero ragione? Potrebbe essere davvero utile rimuovere i pastori nomadi da queste aree, per recuperare l’equilibrio dell’ecosistema? Sradicare un’intera tradizione nomade potrebbe davvero rappresentare la soluzione per l’ecosistema del plateau tibetano? Nel corso dei secoli, i nomadi tibetani si sono alternati nelle praterie. Sanno che l’erba nei pascoli ha bisogno di tempo per crescere nuovamente. Un numero crescente di ricerche scientifiche dimostra che la presenza dei nomadi sul plateau tibetano può invertire il degrado ecologico e preservare questo ecosistema unico. Ciò significa che la politica cinese – rimuovere i nomadi dai pascoli – aumenterebbe ulteriormente il rischio di desertificazione.
Vi è accordo tra i ricercatori che le praterie sono importanti per l’equilibrio dell’ecosistema in Tibet. Ricerche sempre più approfondite evidenziano il loro ruolo sui flussi delle acque sotterranee e su come i modelli di drenaggio influiscano sulla portata dei fiumi che riforniscono d’acqua gran parte della popolazione nel Sud-est asiatico. La vegetazione delle praterie preserva la capacità del terreno di moderare il movimento delle acque sotterranee e agisce come un sistema naturale di stabilizzazione del terreno. Il rischio nel rimuovere i nomadi da queste aree, qualcosa che purtroppo è già in gran parte accaduto, è che l’equilibrio della vegetazione potrebbe diventare più fragile. Il co-cordinatore di Tibet Third Pole (www.tibetthirdpole.org) afferma che “i tentativi del governo cinese di risolvere la crisi idrica che esso stesso ha causato, sono diventati una minaccia per la vita e la sussistenza di più di due milioni di nomadi e di più di un miliardo di persone ai piedi del Tibet”.
Perché è importante che la questione dei pastori nomadi in Tibet sia una priorità per il vertice sul clima di Copenaghen? Il loro diritto di sopravvivere ed essere protagonisti del proprio sviluppo, come sancito in materia di diritti umani, non ha a che fare con il fatto che i paesi industrializzati si impegnino a ridurre le loro emissioni di gas-serra. Se però si guarda oltre i confini del Tibet, è chiaro che molte persone dipendono dall’acqua che origina da questo altopiano; quindi, forse dovremmo discutere dei diritti dei nomadi tibetani in relazione al clima ad un livello più generale. Se la democratizzazione e la tutela dei diritti umani in ogni paese possono avere un effetto positivo sull’ambiente, se ne dovrebbe discutere durante la Conferenza sui cambiamenti climatici di Copenaghen, nella stessa misura in cui questo vale per la riduzione delle emissioni dei gas-serra.
Da cinquanta anni, in Tibet la Cina gestisce una politica che si è rivelata disastrosa dal punto di vista ecologico. Forzando i nomadi a trasferirsi in veri e propri ghetti, il regime cinese viola sia la propria Costituzione sia i diritti umani fondamentali. La Cina continua a sperimentare a spese del sistema ecologico del Tibet. Inoltre, la politica interna della Cina non rappresenta solo un grande pericolo per l’esistenza dei nomadi tibetani, ma anche per circa 1,3 miliardi di persone che dipendono dalle acque che originano dall’Himalaya. L’interdipendenza tra i pascoli, i nomadi e il sistema di drenaggio dei fiumi in Tibet sfida la nostra attuale concezione del principio di sovranità dello Stato. I cambiamenti climatici che ci troviamo ad affrontare riguardano tutti e dovrebbero costringere i Governi a un livello superiore di riflessione morale. I leader di Stato devono capire che le azioni interne si ripercuotono oltre i confini nazionali. Le politiche interne possono avere importanti conseguenze sull’ecosistema degli stati confinanti nonché sul clima globale.
Quando la comunità internazionale si riunirà a Copenaghen a dicembre per negoziare un nuovo trattato di Kyoto, le emissioni di gas-serra non dovrebbero essere l’unico argomento all’ordine del giorno. Le cause del cambiamento climatico vanno altrettanto ricercate nelle politiche interne che inducono il degrado degli ecosistemi. Preservare l’equilibrio degli ecosistemi è almeno tanto importante quanto ridurre le emissioni di gas-serra. La comunità mondiale deve adattarsi ai cambiamenti climatici. Un buon inizio potrebbe essere quello di prendere sul serio i diritti fondamentali dei pastori nomadi del Tibet. La politica cinese di costrizione nei confronti dei nomadi tibetani tocca incredibilmente tutti noi.
Roy-Arne Varsi
The Norwegian Tibet Committee & Tibet Third Pole
Traduzione di Giovanna Calogiuri