Non è che stiamo sbagliando mira? Tutti scandalizzati dal video pubblicitario «cinese» di Dolce & Gabbana, in questi giorni. È bruttino e sciocco. E peggiore è probabilmente la difesa che ne è stata fatta nella discussione pubblica. Ma non possiamo non accorgerci di quello che la vicenda racconta di più grande e più grave. Modelle, tecnici, siti di e-commerce cinesi si sono mobilitati come un sol uomo nella punizione della casa di moda italiana. Offesi, dicono, dalla mancanza di sensibilità verso la cultura del loro Paese, hanno messo in pratica un boicottaggio di massa, palesemente non spontaneo, che ha costretto al rinvio della sfilata prevista a Shanghai. Non sappiamo se sia arrivato un ordine da qualcuno al vertice del partito e del governo o se la scintilla sia scoccata dallo zelo di un funzionario intermedio.
Sappiamo però che la «punizione» economica e commerciale è una pratica consolidata, un modo di fare che in Cina si applica a un passo falso, a un errore o a qualsiasi cosa ideologicamente e politicamente sgradita venga compiuta. Quando, nel 2010, il comitato norvegese del Nobel per la Pace premiò il dissidente Liu Xiaobo, Pechino bloccò l’importazione di salmone dalla Norvegia fino al 2017. L’Australia ha accusato le autorità cinesi di interferire nella propria politica interna: la reazione è stata violenta sul piano verbale ma ha anche preso la forma di ostacoli all’importazione in Cina di vino australiano. Ogni governo del mondo che intende avere un rapporto con il Dalai Lama deve camminare sulle uova: le sanzioni cinesi arrivano regolarmente quando il leader tibetano viene ricevuto. Da quest’anno, le compagnie aeree internazionali che non definiscono Taiwan parte della Repubblica Popolare vanno incontro a sanzioni. E così via, innumerevoli imprese hanno dovuto chinare il capo e spesso negare i propri valori per salva-guardare la loro quota di mercato nel Regno di Mezzo. È che, quando serve, l’ambiente di business cinese è usato dalle autorità per rovesciare posizioni ritenute antagoniste o sgradevoli. Ovunque, nel mondo, un imprenditore può fare un errore, usare un linguaggio inappropriato. Di solito sono i consumatori e il mercato a stabilire la gravità del fatto. Solo in Cina è costretto a produrre un video umiliante nel quale fa autocritica pubblica, come ai tempi della Rivoluzione Culturale del presidente Mao: ora che Pechino si sente potente, la rieducazione la applica su scala globale.
Di Danilo Taino
24 novembre 2018
Corriere della Sera