Nella definizione di Pechino sono «Scuole tecniche di istruzione professionale», aperte nello Xinjiang per strappare i musulmani uiguri alle sirene dell’estremismo. Secondo le organizzazioni umanitarie internazionali e un rapporto Onu di settembre si tratta invece di campi di internamento dove sono finiti più o meno un milione tra uiguri e altri cittadini di fede musulmana che abitavano in diverse province dell’impero cinese. La rieducazione si raggiunge con lezioni (indottrinamento politico-culturale) e in base alle ultime testimonianze con lavoro (forzato).
E ora un’inchiesta del New York Times rivela che a settembre, una settimana dopo l’accusa dell’Onu, la famosa società di consulenza McKinsey & Company ha tenuto proprio nello Xinjiang il suo annuale «ritiro»: giorni densi di conferenze, dibattiti strategici e appuntamenti ricreativi. La faccenda è venuta fuori anche perché i partecipanti hanno postato su Instagram foto avventurose e pittoresche dell’accampamento di tende per gli ospiti, collegate da tappeti rossi, e di cavalcate sui cammelli nel deserto, falò notturni tra le dune. L’accampamento in stile tè nel deserto era a sei chilometri in linea d’aria da una struttura identificata come campo di rieducazione per uiguri.
L’esistenza di questi centri non è più un segreto. Notizie allarmanti si sono rincorse per mesi. Poi, a ottobre, Pechino ha deciso di rispondere ai «pregiudizi occidentali» lanciando un’offensiva di trasparenza/propaganda: ha pubblicato una revisione della legge anti-estremismo che permette alle autorità locali di aprire «istituti per educare e trasformare i soggetti influenzati dall’estremismo religioso, riabilitarli con l’istruzione professionale». Pechino non parla dei numeri dell’operazione, ma se sono precise le stime delle organizzazioni umanitarie, si tratta di un milione di persone, su una popolazione di 11 milioni di uiguri musulmani dello Xinjiang, il Far West dell’impero.
Un sistema che ricorda i «laojiao», le strutture per il lavoro forzato che ufficialmente erano state abolite in Cina nel 2013. La riedizione dei campi di lavoro è in apparenza più liberale, riservata agli uiguri meno «estremizzati»: i «ri-educandi» ricevono un salario di circa 650 yuan al mese, 85 euro, ha riferito uno di loro, Abel Amantay. L’uomo può telefonare due volte al mese a casa: conversazioni ascoltate dai funzionari del centro, per essere certi che il programma di riabilitazione funzioni. La moglie ha detto che «Abel non parla molto al telefono, ci dice che sta imparando molte cose e chiede sempre i nomi e l’età dei nostri figli, mi sembra che stia perdendo la memoria».
In questa regione tormentata si è andata a infilare McKinsey per il suo ritiro-vacanza. L’inchiesta del Nyt conclude che così «trasforma la tirannia in cliente». Una picconata devastante al mito della società americana che dice di sé: «Dal 1926 il fidato consulente per il business mondiale, i governi e le istituzioni. Oltre 100 uffici in 50 Paesi». Tra questi Paesi la Cina, la Russia e l’Arabia Saudita.
Di Guido Santevecchi
Corriere della Sera
18 dicembre 2018