Allarme rosso a Hong Kong: “Rischio nuova piazza Tienanmen”

Hong Kong settembre 2019Il pugno di ferro preventivo prima di far muovere i carri armati. Arresti, divieti di manifestare, grandi manovre militari. Hong Kong è sull’orlo del baratro. Sarà annullata la marcia prevista per questo fine settimana a Hong Kong dopo mesi di proteste, dopo che nelle ultime ore è stato denunciato l’arresto di tre noti attivisti.

La coalizione Civil Human Rights Front ha fatto sapere che rinuncerà all’iniziativa in assenza di autorizzazioni da parte della polizia. Come ha spiegato Bonnie Leung, la priorità ”è sempre proteggere” i manifestanti e garantire che “non ci siano conseguenze” per loro a livello legale, quindi “non c’è altra scelta che annullare” la marcia prevista per domani. La polizia aveva vietato la manifestazione e si era rifiutata di rivedere la sua decisione, dopo la richiesta degli organizzatori, che hanno quindi deciso di annullare l’evento per “proteggere i manifestanti e assicurare che non ci fossero conseguenze legali per loro”, ha spiegato la vice coordinatrice. “Non abbiamo avuto altra scelta che annullare la marcia. Chiediamo scusa, ma continueremo a chiedere alle autorità di autorizzare nuove manifestazioni”, ha aggiunto. “È significativo che le autorità abbiano vietato un evento di un’organizzazione come la nostra. Si tratta – ha avvertito Leung – di una violazione assoluta dei diritti umani più elementari della popolazione di Hong Kong. Non è possibile fidarsi di questo sistema”. Per questo ha detto ancora la vice coordinatrice, “non abbiamo altra scelta che continuare con il nostro movimento. È nella natura umana che se le richieste non vengono ascoltate, il popolo di Hong Kong diventerà più radicale, e questo è qualcosa che il Fronte non vuole vedere. Ecco perché continueremo a chiedere che ci facciano manifestare modo pacifico”, ha aggiunto. 

Da giugno sono circa 900 le persone finite in manette a Hong Kong. Nei giorni scorsi il consigliere di Stato e capo della diplomazia di Pechino, Wang Yi, ha descritto la crisi a Hong Kong come la “più grave dalla riunificazione”, dal 1997 da quando l’ex colonia britannica è tornata sotto la sovranità della Repubblica Popolare Cinese. Nella notte fra il 29 e il 30 agosto nell’ex colonia britannica sono sbarcati tra 8 e 10mila militari cinesi: sono andati ad aggiungersi ai 5mila soldati dell’esercito popolare di stanza nell’isola, mentre dal 22 agosto più di 12mila agenti di polizia sono stati trasferiti nella vicina provincia cinese del Guangdong, per un’esercitazione che ha incluso misure anti-sommossa. In questo quadro sempre più deteriorato, sono stati liberati su cauzione i due volti simbolo della Rivoluzione degli ombrelli, leader neppure 18enni del movimento pro democrazia, Joshua Wang e Agnes Chow, fondatori e dirigenti del partito politico Demosisto che si batte per l’autodeterminazione della città, entrambi 22enni, prelevati questa mattina dalla polizia dell’ex colonia inglese.


L’accusa nei loro confronti era di “assemblea illegale”, legata alla manifestazione non autorizzata che lo scorso 21 giugno, all’inizio del movimento, ha circondato il quartier generale della polizia a Wan Chai per chiedere il completo ritiro della legge sull’estradizione verso la Cina e il rilascio delle persone arrestate nei giorni precedenti. Chow sarebbe accusata di aver incitato alla manifestazione, Wong di averla anche organizzata.


In queste ore la polizia ha fermato altri attivisti e politici, in quella che ora molti esponenti del campo democratico descrivono come una operazione coordinata per silenziare la protesta colpendo dei volti conosciuti del dissenso di Hong Kong. Giovedì sera gli agenti hanno arrestato Andy Chan, 28 anni, leader di un partito indipendentista accusato di assalto a pubblico ufficiale, e Althea Suen, ex presidente dell’Unione studentesca di Hong Kong, accusata di aver organizzato l’irruzione all’interno del Parlamento dello scorso primo luglio. Venerdì mattina sono stati arrestati Rick Hui, consigliere del distretto di Sha Ting, per ostruzione a pubblico ufficiale e perfino un parlamentare Cheng Chung-tai, 35 anni, leader del partito Passione civica. La prova di forza è nelle cose. “Il rischio non può essere escluso anzi il timore è che sia più probabile – dice ad HuffPost il professor Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, profondo conoscitore del ‘pianeta-Cina – . Perché il dibattito interno cinese è centrato nel rapporto del Partito comunista cinese e la stabilità dello Stato. La soluzione ‘uno Stato, due sistemi’ anzitutto ha una scadenza e in secondo luogo risente delle tensioni con gli Stati Uniti. Un’azione di forza è possibile e quello che stanno valutando i dirigenti cinesi è il costo politico ed economico. Molto probabilmente cercheranno di disarticolare il movimento anziché distruggerlo. A ciò va aggiunta la ‘questione taiwanese’, che oscilla tra riunificazione consensuale e soluzione di forza”.

Hong Kong, è allarme rosso. “La Cina ha il potere d’intervenire e le immagini dei mezzi corazzati e dei soldati ammassati ai confini danno conto di questa determinazione – dice ad HuffPost il professor Stefano Silvestri, già presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) – . Ci sono tutte le premesse possibili per una nuova Tienanmen moltiplicata per dieci, perché è probabile che in questo caso il numero di vittime sarebbe di molto maggiore. Ma soprattutto l’intervento cinese brucerebbe il ruolo finora giocato da Hong Kong non solo come piazza finanziaria tra le più importanti a livello mondiale, ma più in generale come modello di tolleranza e di accettazione del diverso. Se dovesse avvenire l’intervento militare, il regime cinese assumerebbe una faccia molto dura, il che, a mio avviso, non potrebbe non avere gravi conseguenze sul piano internazionale. È vero – annota ancora Silvestri – che oggi il mondi dei Putin, dei Trump, dei Bolsonaro è più pronto ad accettare questo tipo di evoluzione cinese, ma quanto durerà questo mondo e, comunque, ci sarebbe una reazione di scandalo popolare che anche i regimi più opportunisti avrebbero difficoltà ad ignorare. Ed infine, la Cina oggi ha meno soldi di ieri e quindi anche meno appeal”.

A conferma di una situazione sempre più drammatica è la rivelazione della Reuters: la governatrice di Hong Kong Carrie Lam il 16 giugno – scrive l’agenzia di stampa britannica, citando come fonte tre persone vicine alla questione -avrebbe a presentato al governo centrale cinese una relazione che conteneva alcune richieste fatte dai manifestanti e che avrebbero contribuito a risolvere la crisi: il ritiro dell’emendamento, un’indagine indipendente sulla repressione, elezioni democratiche, abbandono del termine “rivolta” nella descrizione delle proteste e caduta delle accuse nei confronti degli attivisti arrestati fino a quel momento. Tutte le richieste sono state però respinte e la Cina ha ordinato alla governatrice di non fare ai manifestanti alcuna concessione. Questo, scrive Reuters, darebbe concretamente la misura dell’influenza di Pechino su Hong Kong.

Riflette Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la rivista italiana di geopolitica: “Hong Kong è la pietra di paragone delle prospettive della Cina, nel senso che le riforme che Xi Jinping aveva lasciato intravvedere all’inizio del suo mandato e che sono assolutamente vitali per la Cina, non sono state per ora realizzate. Anzi si è verificato un ulteriore accentramento del potere che è un chiaro segno di debolezza e d’incertezza. La sfida degli oppositori al governo di Hong Kong, di fatto eterodiretto da Pechino, ci dirà molto sul futuro della Repubblica popolare. Se la crisi dovesse radicalizzarsi – prosegue Caracciolo – Xi potrebbe essere costretto a fare quel che non vuol fare: una repressione violenta. Credo che il dibattito in corso nel Politburo cinese, di cui poco o nulla sappiamo, sia tuttavia orientato alla ricerca di una soluzione negoziata. Ma esistono delle linee rosse invalicabili, e cioè il fatto che Hong Kong è e resterà parte della Repubblica popolare, e che la parola d’ordine ‘uno Stato, due sistemi’, dovrà diventare rapidamente, ben prima della scadenza del 2047, ‘uno Stato, un sistema’: quello che deciderà Pechino. Quanto ai rivoltosi – conclude il direttore di Limes – nelle ultime settimane è emersa una frangia estremista, soprattutto giovani e studenti, che non esprime, però, una leadership chiara e unitaria. La possibilità quindi che anche questo round di proteste segua la parabola della ‘Rivoluzione degli ombrelli’, resta presente. E tuttavia, la crisi di Hong Kong ci ricorda che non c’è una sola Cina: oltre all’ex colonia britannica restano da normalizzare e integrare pienamente vaste aree di territorio cinese, dallo Xinjiang al Tibet, fino alla chiave di tutto, Taiwan”.

Di Umberto Giovannangeli

Huffingtonpost.it

30 agosto 2019