Questa la situazione vista da Pechino. E dall’altro lato dell’Himalaya, cosa risponde la parte tibetana?
Dharamsala, 2 febbraio, 15.00 (ora locale). Lodi Gyari e Kelsang Gyaltsen tengono a loro volta una conferenza stampa in cui il primo, descrive innanzitutto quanto accaduto a Pechino. “Abbiamo chiesto alla nostra controparte di fermare le accuse infondate contro il Dalai Lama e smettere di etichettarlo come separatista. Piuttosto abbiamo esortato la dirigenza cinese a lavorare insieme a lui per trovare una soluzione reciprocamente accettabile sulla base del Memorandum”. Aggiungendo inoltre che, “Sua Santità il Dalai Lama parla a nome del popolo tibetano nei confronti del quale ha una profonda e storica relazione basata sulla piena fiducia. Non si può contestare che Sua Santità rappresenti legittimamente il popolo tibetano il quale, senza alcun dubbio, lo considera come il suo vero rappresentante e portavoce. Ed è quindi unicamente attraverso il dialogo con Sua Santità il Dalai Lama che il problema del Tibet potrà essere risolto. E’ essenziale riconoscere questa realtà”. Lodi Gyari, pur dichiarandosi deluso dal comportamento e dalla rigidità del comportamento di Pechino, ha aggiunto che l’incontro appena terminato solo apparentemente può essere considerato un fallimento. E ha concluso lanciando un appello alla controparte cinese, “Affinché si possa giungere ad una comprensione comune della reale situazione, suggeriamo di compiere un reciproco sforzo per studiare l’effettiva realtà delle cose, nello spirito del cercare la verità dai fatti. Questo aiuterà entrambe le parti ad andare oltre le presenti controversie”. Infine ha tenuto a ringraziare, “… i nostri ospiti, il Fronte Unito dello Hunan, il Fronte Unito di Pechino e il Dipartimento Centrale del Fronte del Lavoro per l’ospitalità accordataci nel corso della nostra visita”.
Mah! Con tutto il rispetto per gli sforzi e la titanica pazienza dei due inviati del Dalai Lama, ritengo che la fragile nave del Governo tibetano in esilio rischia di naufragare definitivamente sugli scogli di una sempre più irrealistica proposta, se non riuscirà a vedere con chiarezza il cardine su cui ruota l’intera politica dei dirigenti cinesi. Cardine che ha molto a che fare con uno spettro. Un fantasma, che turba i loro sonni.
Dharamsala e lo spettro di Gorbaciov
Uno spettro continua ad aggirarsi per il ciclopico complesso dei palazzi del potere di Pechino. Non si tratta però dello spettro del comunismo di cui parlavano Marx ed Engels nel loro celebre “Manifesto” del 1848. Paradossalmente è invece lo spettro di colui che, pur non volendolo, determinò la morte del comunismo o almeno della della sua patria storica, l’Unione Sovietica.
Da quel lontano dicembre 1991, quando la bandiera rossa venne ammainata dai pennoni del Kremlino, il fantasma di Gorbaciov turba i sonni della nomenklatura cinese che vede nell’ultimo segretario generale del PCUS il responsabile principale della disfatta della culla primigenia del Socialismo Reale. È la ventennale ossessione di questo fantasma che impedisce ai Signori di Pechino di compiere anche la più timida apertura politica nei confronti dei loro oppositori. Perché la classe dirigente cinese individua nella contemporaneità di aperture economiche e politiche, il vero errore gorbacioviano. E si guarda bene dal ripeterlo, mantenendo ben saldo il controllo autoritario sulla società proprio mentre lascia le briglie sciolte sul collo del destriero lanciato nel galoppo sfrenato di quella liberalizzazione economica che definisce “economia socialista di mercato”.
La triste e un po’ patetica vicenda del “dialogo” sino-tibetano è un buon esempio di come la pensino i cinesi. Nonostante da oltre 20 anni il Dalai Lama e il suo governo in esilio stiano facendo il possibile e l’impossibile (dalla rinuncia all’indipendenza del Tibet, al dissuadere i tibetani e i loro sostenitori internazionali dal contestare l’illegale occupazione del Paese delle Nevi, dall’accogliere con favore l’entrata della Cina nel Wto e l’assegnazione a Pechino dei Giochi Olimpici al definire “onesto e patriottico” il traditore e collaborazionista Ngabo Ngawang Jigme in occasione della sua recente morte), nonostante tutto questo dicevo, il governo cinese continua ad insultare il Dalai Lama, irridere la sua politica conciliante e umiliare i suoi rappresentanti in occasione dei “colloqui” iniziati nel lontano 2002. Tra altro, varrà la pena di ricordare per inciso, come questi incontri, forniscano graditi alibi alle burocrazie internazionali per lavarsi le mani del dramma del popolo tibetano soddisfatti di potersi definire “felici” che ci sia un dialogo tra Cina e Dalai Lama.
Ora, soprattutto dopo le dure parole pronunciate ieri ed oggi dai dirigenti cinesi, sarebbe interessante capire fino a quando il governo tibetano in esilio potrà far finta di niente, continuare a confondere i propri desideri con la realtà e andare avanti come se niente fosse, salmodiando il mantra del “dialogo sino-tibetan””. Sarebbe interessante ma è difficile da prevedere. Da quanto si può evincere dalle due conferenze stampa del 2 febbraio, retorica dialogante a parte, Dharamsala è di fronte ad un bivio. O capitolare definitivamente e accettare l’estremo diktat di Pechino rinunciando perfino alle richieste contenute nel pur moderatissimo “Memorandum” o accettare il definitivo fallimento di una politica ventennale (in pratica iniziata con la “Proposta di Strasburgo” del giugno 1988) e prendere atto che quel dialogo, in nome del quale si è sacrificata l’idea forza dell’indipendenza e ci si è piegati a umilianti concessioni, altro non era che un miraggio. Una chimera. Un sogno che, alla luce degli ultimi avvenimenti, pare essersi trasformato in un incubo.
Ma al di là del governo in esilio, come reagiranno i tibetani, dentro e fuori il Tibet, a questa ennesima dimostrazione di quanto sia poco concreta la pretesa di Dharamsala di avere un effettivo dialogo con Pechino? Nel momento in cui sto scrivendo queste righe (notte tra il 2 e 3 febbraio 2010) ancora non vi sono prese di posizione ufficiali da parte dei principali gruppi che si oppongono alla “Via di Mezzo”. Le uniche opinioni che ho potuto raccogliere in queste ore sono quelle, apparse sul sito web tibetano “Tibettruth” (http://tibettruth.com/). In una serie di articoli durissimi con gli inviati del Dalai Lama e Dharamsala, si chiede, senza mezzi termini che venga definitivamente ritirata la proposta di autonomia contenuta nel Memorandum on Genuine Autonomy for the Tibetan People (definito “un manifesto di disperazione e capitolazione”), per tornare a lottare apertamente per la completa indipendenza del Tibet. “E’ sicuramente arrivato il momento per mobilitarsi insieme a quanti vivono in Tibet, appoggiare la loro lotta per l’indipendenza e aiutarli nella loro richiesta di un Tibet indipendente”. Vedremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni quanto la voce di “Tibettruth” sia rappresentativa dell’opinione pubblica tibetana. Quantomeno di quella dell’esilio. Vedremo se, quelle che il buon Marx chiamava le dure repliche della storia, saranno in grado di convincere i tibetani che perfino il Dalai Lama, Kundun, “la Presenza”, può sbagliare strategia politica. Dopotutto non bisogna dimenticare che il meeting consultivo tenutosi a Dharamsala nel novembre 2008, dove certo non erano state agevolate le posizioni “indipendentiste”, nel suo documento conclusivo contemplava la possibilità di tornare a lottare per la completa indipendenza del Tibet nel caso i cinesi avessero continuato a rigettare la richiesta di una “genuina autonomia” avanzata dal governo in esilio.
Quali che saranno le reazioni di governo in esilio e comunità tibetana, è comunque importante notare come la conclusione del 9° incontro sino-tibetano, sia avvenuta nel bel mezzo di una crisi Usa-Cina che non ha precedenti in questi ultimi anni. Iniziata con la vicenda Google, continuata con l’aperta difesa di Hillary Clinton delle ragioni del colosso informatico statunitense, ha raggiunto il suo apice con la decisione di Washington di vendere a Taiwan un ingente quantitativo di armi. Pechino ha risposto con il solito garbo denunciando l’arroganza americana, minacciando di cancellare gli scambi bilaterali militari, annullare la cooperazione esistente in differenti settori tra le due nazioni e imporre severe sanzioni alle aziende americane in qualche modo coinvolte nella vendita del materiale bellico a Taipei che Pechino continua a considerare una provincia ribelle. Quella Taipei dove torna a rafforzarsi il Partito Democratico, oggi all’opposizione, favorevole a dichiarare unilateralmente l’indipendenza di Taiwan e piuttosto favorevole alla causa tibetana. Infine, notizia di pochi minuti fa, il presidente Obama ha dichiarato che vedrà il Dalai Lama quando questi si recherà a Washington. Nonostante Pechino avesse già fatto sapere che un eventuale incontro con il leader tibetano metterebbe a rischio l’intero corpo delle relazioni USA-RPC.
Questa serie di eventi ha portato alcuni commentatori a chiedersi se non si stia aprendo la stagione di una nuova “Guerra Fredda”. Adesso non più tra Mosca e Washington ma tra quest’ultima e Pechino. Onestamente non ci giurerei ma certo il clima sembra cambiato tra le due superpotenze. In particolare se pensiamo alla visita della Clinton a Pechino (febbraio 2009) e del recente viaggio di Obama in Cina (novembre 2009) svoltisi ambedue non proprio all’insegna del confronto polemico e della freddezza diplomatica. Anzi. La Clinton si guardò bene dal pronunciare anche la più tiepida critica e Obama, prima di arrivare, disse che, “Una Cina forte e prospera è nell’interesse del mondo intero”. Acqua passata? Peut-être.
Di certo però, se fossimo veramente entrati in una fase di confrontation sino statunitense, questo elemento non potrebbe non riflettersi sul problema tibetano (ovviamente anche su tutte le altre aree di crisi che riguardano Pechino ma limitiamoci al Tibet altrimenti il discorso ci porterebbe troppo lontano). Infatti, nonostante Obama non abbia fino ad ora dato nessun segno in questa direzione, un raffreddamento dei rapporti con Pechino obbligherebbe il presidente americano a riprendere la politica della mano tesa all’India che aveva iniziato il suo predecessore ma verso la quale il “presidente del Pacifico” sembrava non aver alcun interesse al punto di non aver incluso Nuova Delhi nel suo lungo viaggio asiatico dell’autunno scorso. Una Nuova Delhi che, a sua volta, sta vivendo un periodo più che burrascoso nelle sue relazioni con Pechino come non avveniva da decenni. E, gioverà ricordarlo, benzina sul fuoco di queste rinnovate tensioni sino-indiane è stata versata anche dal recente viaggio del Dalai Lama in Arunachal Pradesh, lo stato dell’India di cui la Cina rivendica ampie aree di territorio, considerandolo parte (non senza qualche ragione) del Tibet meridionale. Inoltre Nuova Delhi si sente circondata da una cintura ostile costituita da nazioni ormai entrate a far parte della sfera di influenza cinese: dallo storico arcinemico Pakistan, al Nepal neo-repubblicano a maggioranza comunista, alla Birmania dei generali, allo stesso Sri Lanka grato a Pechino per gli aiuti forniti nella guerra contro l’insurrezione Tamil. E, dulcis in fundo, il governo indiano ritiene che la Cina sovvenzioni sotto banco i focolai di guerriglia presenti sul territorio del sub continente a cominciare dalla pericolosa insurrezione maoista sempre più attiva in molti distretti.
All’interno di questo quadro, potrebbe non essere assurdo ritenere possibile che stia aprendosi un nuovo scenario geo-politico asiatico. E non sarebbe male che lassù, a Dharamsala, cominciassero a rendersene conto. Soprattutto capissero che, fin quando il fantasma di Gorbaciov continuerà a volare alto sui cieli di Zhongnanhai, non sarà tempo di “dialoghi” o “Vie di Mezzo”. E prendessero finalmente coscienza della realtà. Che dovrebbe imporre loro di rimboccarsi le maniche per iniziare a dare al Muro di Pechino la dose di picconate che compete ai tibetani.