14 gennaio 2021. “Il 2020 è stato il periodo più buio per i diritti umani in Cina dal 1989, anno del massacro di Piazza Tienanmen”.
E’ quanto afferma l’organizzazione internazionale Human Rights Watch nel suo 30° rapporto annuale, un volume di 652 pagine in cui viene presa in esame la situazione dei diritti umani esistente in circa cento paesi di tutto il mondo. Nell’introduzione, il direttore esecutivo Kenneth Roth dichiara che il governo cinese, il cui potere si basa sulla repressione, è colpevole del più massiccio attacco ai diritti umani degli ultimi decenni. Evidenzia che le azioni di Pechino incoraggiano e ottengono l’appoggio del populismo autocrate di tutto il mondo mentre le autorità cinesi si avvalgono del loro peso economico per dissuadere gli altri governi da ogni possibile critica.
Prove del peggioramento della situazione e dell’autoritarismo cinese sotto la presidenza di Xi Jinping sono l’inasprimento delle persecuzioni contro le minoranze etniche nello Xinjiang, nella Mongolia Interna e in Tibet, la repressione posta in atto a Hong Kong e il tentativo nascondere l’origine e il diffondersi del coronavirus. Le autorità hanno inizialmente tentato di coprire quanto era avvenuto e punito medici e giornalisti che cercavano di dire la verità e riferire quanto succedeva a Wuhan durante il lockdown, inclusi i rigidi controlli e le vessazioni inflitte ai famigliari delle vittime del virus. Nello Xinjiang prosegue l’arbitraria detenzione dei musulmani turchi sulla base della loro identità mentre altri sono costretti ai lavori forzati, alla sorveglianza di massa e all’indottrinamento politico. Manifestazioni di protesta sono scoppiate lo scorso settembre nella Mongolia Interna quando le autorità hanno deciso che l’insegnamento scolastico si sarebbe dovuto tenere in lingua cinese anziché mongola. In Tibet le autorità continuano a imporre “forti limitazioni alle libertà religiose, di parola, di movimento e di riunione. I funzionari locali ignorano le istanze di risarcimento della popolazione in conseguenza delle attività minerarie e degli espropri terrieri e la polizia fa spesso ricorso all’intimidazione e all’uso della forza”. A Hong Kong, nonostante le proteste, Pechino ha approvato la legge sulla sicurezza nazionale bollando ogni tentativo di pacifica opposizione come crimine di secessione, di ribellione, terrorismo e collusione con forze straniere. Dallo scorso giugno sono state arrestate più di novanta persone. In tutta la Cina dilagano la censura su Internet, la sorveglianza di massa e il tentativo si “sinizzare” la religione. Difensori dei diritti umani e giornalisti sono stati arrestati, sono scomparsi o costretti all’esilio forzato con l’accusa di “incitamento alla sovversione”.
Il rapporto prende inoltre in esame i rapporti tra Cina e Stati Uniti, la guerra dei dazi e le relative sanzioni, le nuove disposizioni circa la concessione dei visti a giornalisti e diplomatici. HRW critica infine la risposta dell’Europa alla Cina in materia di rapporti commerciali ritenendo che, dopo avere convintamente criticato Pechino per l’imposizione dei lavori forzati nella provincia dello Xinjiang, l’Europa avrebbe potuto esercitare maggiori pressioni sulla controparte prima della firma degli accordi.
Fonti: Tibet.net – Human Rights Watch