di Claudio Cardelli
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Sua Santità Tenzin Gyatso XIV Dalai Lama del Tibet il 6 luglio compie 86 anni. In Tibet sono vietati i festeggiamenti pubblici per tale ricorrenza. Leader indiscusso, simbolo vivente del popolo tibetano, dal suo esilio di Dharamsala, in India, dal 1959 il Dalai Lama ha portato nel mondo la questione tibetana, la cultura e la spiritualità del Tibet, i valori etici e morali della lotta nonviolenta del popolo tibetano per il suo diritto all’autodeterminazione. In “ritiro” dal suo ruolo politico dal 2011 continua ad essere comunque il riferimento morale universale per tutto quello che riguarda la vicenda del Tibet e le sue implicazioni nelle relazioni internazionali tra Cina e i governi, soprattutto occidentali, divisi tra i valori, consolidati nelle democrazie, dei diritti umani e i rapporti soprattutto commerciali e geopolitici con il gigante asiatico.
Pochi mesi fa gli Stati Uniti hanno promulgato un “Act” ( legge ) che aggiorna la loro posizione relativamente alla Questione Tibetana. TPSA: “Tibetan Policy and Support Act”. La legge tocca diversi punti che riguardano l’ambiente, il sostegno ai profughi in India, il rapporto con la CTA e il suo riconoscimento ( Central Tibetan Administration è il nuovo nome che si è dato quello che un tempo era il Governo Tibetano in Esilio), la protezione dell’ambiente tibetano, il sostegno della politica della “Via di mezzo”, da molti anni proposta prima dal Dalai Lama e ora dal primo ministro ( Sikyong ) che dal 2011 regge le sorti della politica tibetana nell’esilio.
Ma un vasto e importante capitolo è dedicato alla figura di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet e a cosa succederà riguardo la sua successione.
Tenendo conto che egli ha assicurato i suoi fedeli che vivrà fino a 112 anni, sembra che il problema sia prematuro, ma vediamo più da vicino di che si tratta.
Elaborato sullo storico “Tibet Policy Act del 2002”, il TPSA stabilisce, secondo la posizione ufficiale degli Stati Uniti, che le decisioni riguardanti la reincarnazione del Dalai Lama siano prese esclusivamente sotto l’autorità dell’attuale Dalai Lama, dei leader buddisti tibetani e del popolo tibetano.
Qualsiasi interferenza da parte di funzionari del governo cinese sarà oggetto di gravi sanzioni e sarà considerata inammissibile dagli Stati Uniti.
È impegno formale degli Stati Uniti prendere tutte le misure idonee nei confronti di alti funzionari del governo della Repubblica Popolare Cinese o del Partito Comunista Cinese, responsabili di interferire direttamente con l’identificazione e l’insediamento del futuro 15 ° Dalai Lama del buddismo tibetano, successore del 14 ° Dalai Lama.
Il disegno di legge recentemente emanato invia un chiaro messaggio di deterrenza al governo cinese che continua a immischiarsi nelle tradizioni e pratiche spirituali del buddismo tibetano.
Il governo della Repubblica Popolare Cinese anche nel 1995 ha interferito nel processo di riconoscimento della reincarnazione di leader buddisti tibetani, detenendo arbitrariamente Gedhun Choekyi Nyima, un bambino di 6 anni identificato come l’undicesimo Panchen Lama, e pretendendo di insediare il proprio candidato, figlio peraltro di due funzionari del PCC, come il vero Panchen Lama.
Il disegno di legge afferma categoricamente che l’interferenza della Repubblica Popolare Cinese nelle decisioni riguardanti la reincarnazione di Sua Santità il Dalai Lama equivarrebbe a una violazione delle libertà religiose fondamentali dei buddisti tibetani e del popolo tibetano.
Leggere queste note fa dunque capire quanto sia articolato e cruciale, anche per gli equilibri geopolitici mondiali del XXI secolo, il ruolo di questa straordinaria personalità del nostro tempo.
Il Dalai Lama, nato 6 luglio 1935 a Thakster nel Tibet orientale, per i tibetani, ma non solo, rappresenta la manifestazione terrena di Avalokiteshvara (Chenresig in tibetano) il bodhisattva della compassione (bodhisattva: essere illuminato che per voto rinuncia ad uscire dal ciclo ininterrotto di morti e rinascite, il samsara, e ad entrare nel nirvana, per rimanere tra gli uomini ad insegnare la via della liberazione dalle sofferenze).
Il Dalai Lama è in qualche modo il protettore, i tutore del Tibet e della sua gente. In termini religiosi tibetani egli è un “tulku” (corpo emanato) e il suo riconoscimento come tale viene dopo una lunga serie di procedure che entrano nella dimensione metafisica del buddhismo tibetano. ( e qui occorre cambiare paradigma mentale per accettare queste tradizioni; del resto questo è il mondo tibetano).
Si parla dunque prima di sogni e indicazioni generiche della precedente incarnazione, di consultazioni di oracoli e di visioni magiche sulla superficie di laghi sacri (il Namtso). Due o tre anni dopo la morte della precedente incarnazione, un gruppetto di monaci parte sotto mentite spoglie e si mette alla ricerca verso una regione, decisa sulla base delle precedenti “indicazioni”, di un bambino che possa manifestare segni particolari di carattere e personalità nonché reminiscenze delle vite precedenti. Le ricerche possono durare molti mesi come fu nel caso dell’attuale Dalai Lama. Una volta setacciati vari candidati e individuato il bambino più attendibile, questi viene sottoposto ad una serie di prove che riguardano principalmente il riconoscimento di suoi oggetti personali confusi fra altri simili ( un mala, rosario, una ciotola, un bastone…) superate le quali si decreta infine il riconoscimento…Va riportato che il piccolo Lhamo Dondhup ( il nome originale del piccolo Dalai Lama ) non solo annunciò il giorno prima l’arrivo dei monaci che sarebbero venuti a riconoscerlo, ma una volta che costoro furono entrati nella sua casa, travestiti da mercanti, li chiamò uno per uno con il loro nome, lasciandoli completamente interdetti ed emozionati all’idea di essere già davanti a Kundun ritornato!
Riconosciuto dunque nel 1938 come la reincarnazione del “Grande XIII” Thubten Gyatso, il piccolo Dalai Lama venne dunque portato nella capitale Lhasa tra grandi onorificenze, parate, musiche, canti e preghiere. Crebbe in un mondo felice con la sua famiglia vicino, ma sotto la vigile e severa educazione dei suoi tutori.
Il Tibet anche in quel periodo viveva una situazione di auto reclusione e di totale indipendenza sancita nuovamente nel 1913 dal XIII Dalai Lama dopo la caduta dell’Impero Manciù dei Qing, che dal XVIII avevano governato la Cina e tenuto il Tibet in una forma di larvato protettorato. Rapporto definito giuridicamente di suzeranity ( nella sfera di influenza..)
I venti rivoluzionari di guerra e conquista della Cina da parte dell’esercito di liberazione popolare di Mao Tse Tung sembravano lontani ma in breve tempo il giovane Dalai Lama nell’ottobre del 1950 si ritrovò l’esercito di Mao ai confini orientali del Tibet. In fretta e furia, su suggerimento dell’oracolo di stato, gli furono conferiti i pieni poteri prematuramente e poco più che adolescente si trovò a relazionarsi con i generali cinesi che avevano occupato il suo paese e che, mese dopo mese, anno dopo anno, portavano avanti il loro piano di assimilazione totale del Tibet e le cosiddette “riforme”; tutto attraverso le feroci repressioni che avrebbero stravolto la vita dei sei milioni di tibetani che abitavano da sempre questo desolato deserto d’alta quota grande quasi come l’Europa occidentale. Furono per prime le regioni orientali del Tibet a conoscere cosa intendessero i cinesi per “liberazione”. Esecuzioni sommarie, persecuzioni e linciaggi di religiosi, esproprio delle terre, delle derrate alimentari e degli animali per sfamare le truppe; riforme agricole assurde, come quelle di piantare il grano al posto dell’orzo a 4000 mt di quota col risultato di causare carestie drammatiche.
La convivenza impossibile tra tibetani e cinesi occupanti degenerò anno dopo anno e nel marzo del 1959 scoppiò una rivolta che vide la fuga nell’esilio indiano del Dalai Lama e lo scatenarsi di una repressione brutale da parte di Pechino con quasi 85mila morti solo in quell’anno. Da quel momento in avanti i cinesi mostrarono in tutto il paese il loro vero volto e la rivoluzione culturale che di lì a poco ( 1965-1975 ) squasserà tutta la Cina, in Tibet mostrò ancor di più la sua furia iconoclasta distruggendo la quasi totalità del patrimonio artistico e architettonico del Tibet e causando la morte di oltre un milione di tibetani.
Da quel marzo 1959 la vita di Tenzin Gyatso cambiò radicalmente. Non più il mitizzato “Dio Re” del Tetto del Mondo, ma il leader politico e religioso dei centocinquantamila rifugiati che lo avevano seguito nell’esilio e con i quali si preparava a ricostruire nella ospitale India ( la vera madre spirituale del Tibet ) tutti gli elementi essenziali della cultura, della religione, dell’arte, della medicina tradizionale, del teatro, dell’artigianato del Paese delle Nevi.
Si può certamente affermare che proprio nell’esilio Sua Santità il Dalai Lama ha compiuto un vero e proprio miracolo; con l’idea precisa di formare nella diaspora una nazione con regole democratiche, il Dalai Lama iniziò subito a organizzare delle scuole per garantire a tutti i bambini fuggiti al suo seguito un’istruzione adeguata.
Nello stesso tempo dette anche una svolta alla lotta per l’indipendenza del Tibet che conosceva ormai una sfilacciata quanto eroica resistenza armata ai confini con il Nepal nel territorio del Mustang. Resosi conto della disparità delle forze in campo e dei nuovi assetti geopolitici mondiali con la “distensione” tra USA e Cina all’epoca di Nixon, e fedele al principio buddista della Ahimsa ( nonviolenza) decise che da quel momento la lotta del Popolo Tibetano sarebbe stata una lotta nonviolenta.
Nello stesso tempo la sua popolarità cresceva in tutto il mondo e la cultura tibetana, fino allora appannaggio di pochissimi viaggiatori e studiosi, era diventata qualcosa di accessibile anche grazie alla presenza in occidente di numerosi maestri e lama che avevano trovato qui ospitalità. Ricordo qui il mio primo incontro con dei tibetani nel 1977 a Nuova Delhi dentro il Forte Rosso. Li riconobbi subito da come erano vestiti, dai loro volti mongolici cotti dal sole e dalla lunghe trecce delle donne che ricordavano quelle dei nativi d’America. Camminavano lenti facendo ruotare i loro mulini di preghiera e mormoravano silenziosamente i loro mantra. Ebbi la fortuna di scambiarci alcune parole e rimase annichilito nel vedere sgorgare copiose le lacrime dai loro occhi mentre raccontavano, rotti dall’emozione, la loro fuga dal Tibet e le violenze subite dalle guardie rosse e dei militari cinesi.
Fu quella per me è un’autentica folgorazione che mi portò di lì a poco ad incontrare per la prima volta il Dalai Lama nel corso della sua seconda visita in Italia nel 1982. Lo vidi a Milano al Circolo della Stampa. Era un po’ raffreddato e veniva da Parigi. Lo ascoltai raccontare del buddhismo e della spiritualità del Tibet. Già allora gli era stato richiesto, per il rilascio del visto, di non parlare di politica. In quella sala c’erano poche persone non più di una decina. Il Dalai Lama aveva 47 anni.
Pochi anni dopo assieme a pochi amici, tra cui il suo biografo autorizzato Piero Verni, fondammo l’Associazione Italia-Tibet.
Al Dalai Lama nel 1989 fu conferito il premio Nobel per la pace e la Causa Tibetana divenne un qualcosa di trasversale che attraversò confini, ideologie, mentalità, partiti e religioni. Grazie alla sua capacità di comunicare il suo messaggio semplice ma sostanziale, la simpatia e la solidarietà con il Tibet sono cresciute in modo impressionante in tutto il mondo. Ovunque sono nati “support group” come Italia-Tibet e anche nel mondo politico, nonostante le sempre più pesanti pressioni di Pechino, si sono formati gruppi interparlamentari per il Tibet che, come in Italia, e questo è un elemento di grande significato, raccolgono membri appartenenti a tutti i partiti presenti in parlamento a significare la universalità dei valori della causa per il Tibet.
La lotta della verità contro la forza. Risolvere i conflitti attraverso il dialogo e non con la violenza; essere gentili e compassionevoli verso tutti gli esseri senzienti e non limitarsi alla pratica rituale e alla preghiere, ma agire e dare ad ogni giornata un senso di utilità.
“E se proprio volete essere egoisti, allora siate altruisti, che è il modo più intelligente di essere egoisti” (Dalai Lama, Rimini 30 luglio 2005)
Oggi il Dalai Lama ha 86 anni. Da quel lontano 1982 ho avuto l’opportunità e il privilegio di averlo incontrato tantissime volte. Partecipare ad un’udienza di un gruppo di tibetani con il Dalai Lama è un’esperienza che racconta meglio di qualunque parola la relazione di amore, devozione e rispetto che esiste tra “Kundun” ( la presenza) e il suo popolo. La sua bonomia e il suo carisma, assieme al suo sorriso, strappano regolarmente fiotti di lacrime di commozione tra i convenuti, spesso lo vedono per la prima volta, che si muovono a capo chino e mani congiunte fino a raggiungere il suo cospetto dove, per pochi attimi, ricevono una benedizione , a volte un soffio sul capo e una sciarpa bianca ( khatag) simbolo di sincerità e buon augurio. I convenuti sfilano lentamente fino a uscire ordinatamente continuando a congiungere le mani sul capo e mormorare, rotti dall’emozione, mantra e preghiere. Sarà un evento che si porteranno nel cuore tutta la vita.
L’ultima volta che ho incontrato il Dalai Lama è stata un anno fa a Dharamsala, dove ancora risiede dal 1960. Come al solito è stato festoso e mi ha tirato scherzosamente la barba e quando gli ho chiesto “Santità quando la rivediamo in Italia?” lui mi ha guardato silenzioso e poi, cambiando espressione e improvvisamente triste, mi ha detto: “Mai più… ormai devo evitare i viaggi oltre oceano… quindi se vorrai vedermi devi venire qua…”
Ho deglutito amaramente desiderando dentro di me che non fosse vero. Mi è sembrato proprio la fine di un’epoca durata quarant’anni.