29 agosto 2021
In Tibet lo sviluppo del turismo interno sta raggiungendo livelli parossistici. Quest’anno si prevedono oltre quaranta milioni di turisti cinesi che a bordo di giganteschi fuori strada e bus super tecnologici percorrono sciamando in lungo e in largo quello che considerano, erroneamente, il loro Far West conquistato da sempre.
Nel 1987 ho avuto modo di visitare il Tibet appena aperto al turismo erano ancora ben visibile tutte le tracce delle devastazioni della rivoluzione culturale: oltre seimila monasteri e templi distrutti; diciotto anni dopo, nel 2004, ci tornai quando la sinizzazione forzata procedeva implacabile e aveva già completamente stravolto la fisionomia del paese. La
sinizzazione del Tibet è un processo scientifico e calcolato composto da diversi efficaci strumenti messi in atto dal regime cinese.
In primis l’importazione di milioni di coloni cinesi che da tempo hanno superato la popolazione tibetana autoctona; la distruzione di tutti gli elementi architettonici tradizionali ad eccezione di alcuni templi e monasteri da utilizzare come richiamo turistico e costruzione di nuove imponenti aree urbane in “stile” cinese moderno; l’urbanizzazione
forzata dei nomadi, elemento sociale fondamentale del popolo tibetano: il controllo capillare delle attività religiose attraverso la nomina a capo dei monasteri di “reincarnati patriottici” cui i tibetani devono fare riferimento; il boicottaggio della lingua e della scrittura tibetane che costituiscono un tratto importantissimo nella definizione dell’identità di nazione del Tibet.
In questi ultimi quindici anni oltre 160 tibetani si sono dati fuoco per protestare contro il regime di Pechino. Solo questo può far capire il livello di esasperazione dei tibetani dopo 71 anni di occupazione illegale del loro paese. Una delle ragioni di questa dolorosa e drammatica protesta è appunto il tentativo, ormai portato a termine, di cancellare l’uso
della lingua tibetana.
Per i tibetani è una cosa intollerabile assieme a tutte le altre violazioni dei diritti umani basilari che ogni essere umano dovrebbe avere riconosciuti e che in Tibet sono sistematicamente violati. La reazione delle autorità cinesi a queste proteste conosce una sola direzione: repressione, durezza, ottusità e violenza.
Questo è il Tibet oggi che i cinesi continuano a propagandare come un paradiso di sviluppo e armonia. Sembrerebbe inutile porre l’accento su cosa significhi privare un popolo della sua lingua madre. Ma proviamo a pensarci per un attimo. Immaginiamoci la nostra Italia, il suo mondo e la sua storia, i suoi emblemi dell’arte, della religione, dell’architettura.
Ad un certo punto arriva un popolo alieno, potente e violento che ci invade e distrugge la quasi totalità delle nostre vestigia; e che ci obbliga ad imparare un’altra lingua, incomprensibile, e che tutta la nostra segnaletica, gli elenchi del telefono, la modulistica degli uffici o le insegne dei negozi vengono sostituiti con dei segni misteriosi, illeggibili.
Immaginiamo che i nostri figli incomincino a parlare fra loro in questa specie di ostrogoto, mentre i nostri vecchi rimangono sempre più isolati per la difficoltà di apprendimento e il rifiuto di adeguarsi al nuovo corso. Questo è quello che succede in Tibet. La sparizione della lingua del Tibet è dunque un progetto scientifico ben studiato da Pechino e che mira
alla soluzione finale per il Tetto del Mondo.
L’antica scrittura sillabica fu portata in Tibet dall’India da Tonmhi Sambhota emissario del re Songtsen Gampo nell’VII secolo. Secondo la tradizione Thonmi Sambhota fu inviato in India per studiare l’arte della scrittura che introdusse poi in Tibet . La forma delle lettere è infatti basata su un alfabeto indiano di quel periodo, i caratteri sono simili a quelli
devanagari, ma quale tra i vari presenti all’epoca rimane a tutt’oggi oggetto di controversie.
Ci sono tre sistemi ortografici standardizzati dopo l’adozione della scrittura. Il più importante, utilizzato per la traslitterazione delle scritture buddhiste, fu elaborato nel corso del IX secolo . L’ortografia tibetana non fu più alterata da allora, nonostante i cambiamenti sul piano della lingua parlata. La lingua è uno dei tanti elementi di relazione culturale e
religiosa del Tibet con la “sorella” India più che con la Cina.
Fosco Maraini amava ricordare che se c’era un paese che avrebbe potuto vantare un ipotetico diritto di occupare il Tibet per ragioni culturali e storiche, questo sarebbe stato l’India.
La lingua tibetana è dunque completamente diversa da quella cinese. Appartiene al ceppo tibeto-birmano, anche se, recentemente, alcuni linguisti hanno coniato il termine “sino – tibetano” Questi cavilli terminologici non intaccano la sostanziale differenza tra il cinese e il
tibetano. La lingua cinese è scritta in ideogrammi ed è monosillabica, tonale e senza coniugazioni. La lingua tibetana ha un alfabeto ed è polisillabica. Possiede inflessioni, declinazioni e generi mutuati dal sanscrito e non è semanticamente tonale.
Il tibetano ha preso alcune parole dal cinese, ma anche dalla lingua indiana, nepalese e mongola. Dopo settant’anni di occupazione, solo pochissimi coloni cinesi parlano il tibetano mentre le giovani generazioni tibetane sono state obbligate ad apprendere il cinese parlato e scritto.
Nel 2004 sotto le insegne in cinese dei negozi e dei centri commerciali si poteva leggere la piccola scritta in tibetano. Oggi anche questi residui tentativi del regime di “salvare la faccia” sono completamente spariti.
Fonte: labparlamento.it
A cura di Claudio Cardelli
Presidente dell’Associazione Italia-Tibet