di Enrica Garzilli
Vanity Fair
Il 10 marzo segna una data storica per il Tibet: la rivolta di Lhasa del 1959. Sono passati 63 anni da quando l’intera popolazione di Lhasa, la capitale del Tibet, esasperata dalle violenze dell’occupazione cinese e dalla politica di assimilazione forzata, scese nelle strade chiedendo la fine del regime cinese. L’Esercito di Liberazione Popolare sedò la rivolta uccidendo oltre 65.000 persone.
Fu uno degli eventi più brutali di un’occupazione che ancora oggi miete le sue vittime. E a ricordarcelo è il sacrificio di Tsewang Norbu, un noto cantante tibetano di 26 anni che, secondo i media, è probabilmente morto dopo essersi immolato con il fuoco a Lhasa il 25 febbraio scorso. A causa delle pesanti restrizioni sulla stampa e della sorveglianza imposta dal governo cinese su qualsiasi manifestazione di dissenso, specie tibetano, non è possibile sapere in che reali condizioni versa il giovane.
Il Tibet, paese indipendente
È chiamato il «Tetto del mondo» perché il Tibet si colloca sull’altipiano omonimo a un’altitudine media di circa 4900 metri. È l’altopiano più alto al mondo, sulla catena montuosa dell’Himalaya di cui fa parte l’Everest che, con i suoi 8850 metri sul livello del mare, è la cima più alta del mondo e segna il confine tra Cina e Nepal. Ho detto Cina e non Tibet? Sì perché il Tibet, politicamente e amministrativamente, non esiste più come stato indipendente. Dal 1950 la parte occidentale è diventata la Regione Autonoma del Tibet della Repubblica Popolare Cinese, mentre la parte orientale appartiene alle province cinesi di Qinghai, Gansu, Yunnan e Sichuan. Eppure, dopo vari periodi di dominazioni straniere, dal 1913 al 1950 il Tibet era, di fatto, un paese indipendente. Dopo la morte del XIII° Dalai Lama, avvenuta nel 1933, Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, venne riconosciuto come la sua reincarnazione nel 1937, all’età di due anni. Il 1°ottobre del 1949 Mao proclamò a Pechino la Repubblica popolare cinese e l’anno successivo ordinò all’esercito di invadere la regione, uccidendo migliaia di civili e devastando monasteri.
La difesa della libertà del Tetto del mondo
Temendo che la Cina potesse invadere il resto del Tibet in breve tempo il Kashag, il governo tibetano, nominò il Dalai Lama minorenne capo dello stesso governo al posto del reggente e lo trasportò in luogo sicuro, pronto per fuggire. A seguito delle rassicurazioni in merito da parte dei cinesi il Dalai Lama rientrò a Lhasa, sforzandosi negli anni successivi di ottenere condizioni di occupazione meno dure e di gestire gli affari interni del Tibet senza influenze esterne. Nel 1951 i cinesi imposero al governo tibetano l’«Accordo in 17 punti», in base al quale i tibetani riconoscevano la sovranità cinese e permettevano l’ingresso a Lhasa di un contingente dell’esercito per favorire il graduale inserimento delle riforme per l’integrazione del Tibet nella Cina. In cambio, le autorità cinesi si impegnarono a non occupare il resto del paese ed a non interferire nella politica interna. La situazione di oppressione dei tibetani non migliorò e, anzi, peggiorò.
La grande insurrezione del 1959 e le Torce umane
Il 10 marzo 1959 il popolo tibetano proruppe in una grande insurrezione. La causa scatenante fu la notizia che i cinesi volessero rapire il Dalai Lama. La Cina, che aveva sempre considerato il Tibet parte del suo stato, ordinò una repressione durissima. Vi furono almeno 65.000 vittime e circa 70.000 persone furono deportate. Di loro non si seppe più nulla. Furono distrutti templi e cominciò la sinizzazione forzata e lo spostamento di coloni cinesi nei territori tibetani. Temendo per la vita del Dalai Lama, il governo tibetano organizzò in gran segreto la sua fuga in India, diventando un rifugiato politico. Da allora Tenzin Gyatso viaggia nei vari paesi esteri per sensibilizzare il mondo sulla reale situazione dell’ex Tibet indipendente e dei tibetani dentro e fuori la Cina
Nel 2009 per protesta un tibetano si è autoimmolato con il fuoco e dal 2011 ben altre 156 persone hanno sacrificato la loro vita in Tibet e in Cina: monaci e laici, uomini e donne di ogni età sono diventati “Torce umane”. Il più piccolo che si è dato fuoco per protesta aveva 15 anni. Dieci autoimmolazioni si sono verificate in esilio, le altre nell’ex Tibet indipendente. Il governo cinese accusa il Dalai Lama di istigare i giovani tibetani a darsi fuoco, mentre lui ha sempre mantenuto una posizione di neutralità, dicendo che se avesse condannato questa forma di protesta le famiglie dei martiri ne avrebbero troppo sofferto.
In questi giorni oscurati dal dramma della guerra in Ucraina e dell’esodo di oltre due milioni di profughi, donne, bambini e uomini oltre i 60 anni, vogliamo ricordare le decine di migliaia di morti tibetani per mano del governo della Cina e il continuo esodo dei profughi dall’ormai ex Tibet indipendente – a tutt’oggi, almeno 135.000 persone.