Puntare sull’energia idroelettrica per raggiungere la neutralità di carbonio nel 2060, portando i combustibili fossili nel mix energetico sotto il 20%, sviluppare le aree circostanti e contribuire al benessere generale del Paese: questi nobili propositi dei pianificatori cinesi rischiano in realtà di far pagare un conto elevato a interi e delicati ecosistemi. Stiamo parlando dell’immensa diga, la maggiore al mondo quando sarà completata, che la Repubblica popolare cinese intende costruire nella contea di Medog in Tibet, a soli 30 chilometri dal confine con l’India, all’interno di un canyon di 320 chilometri di lunghezza dove, con un dislivello di 2.000 metri, il fiume che i tibetani chiamano Tsangpo, i cinesi Yarlung e il mondo conosce con il nome indiano di Brahmaputra, quasi inverte il suo corso e precipita letteralmente verso l’India orientale per poi gettarsi, dopo oltre 3.800 chilometri complessivi, nel Golfo del Bengala attraverso l’immenso delta congiunto con il Gange condiviso tra India e Bangladesh.
Lo scorso anno il Parlamento cinese ha confermato nel 14° piano quinquennale (2021-2025), che include alcuni obiettivi strategici fino al 2035, la realizzazione del nuovo progetto energetico, il più ardito finora, con una capacità produttiva quasi tripla rispetto all’impianto delle Tre Gole (300 miliardi di kilowattora contro 111,8 miliardi), che ai costi (quasi 32 miliardi di dollari) e alle enormi difficoltà costruttive, aggiungerà pesanti conseguenze socio-ambientali. Oggi sono in molti a riconoscere gli aspetti negativi del sistema di dighe delle Tre Gole sullo Yangtze che, sottovalutati al tempo della sua realizzazione, a distanza di 18 anni dall’entrata in funzione dovrebbero allertare i pianificatori del nuovo mega progetto. Sicuramente, in allerta sono già i Paesi sul corso inferiore dello Tsangpo/ Brahmaputra, come da tempo in allarme sono le popolazioni interessate e gli ambientalisti: i corsi d’acqua interessati hanno origine in Cina, ma parte del loro bacino è in altre nazioni. Il Mekong primo fra tutti: è il principale fiume della regione indocinese, che include nel suo corso ampie aree di Repubblica popolare cinese, Myanmar, Laos, Cambogia, Thailandia e Vietnam, con un sistema fluviale tra i più complessi al mondo, secondo soltanto a quello del Rio delle Amazzoni in termini di biodiversità ittica. Dalla inaugurazione della prima diga per la produzione di energia elettrica, quella di Manwan nella provincia dello Yunnan, nel 1995, la Cina ne ha completate altre dieci sul corso principale e centinaia sui suoi affluenti, modificando significativamente il flusso e la qualità delle acque nelle parti centrale e meridionale del corso del fiume, con un significativo impatto sull’ambiente e sulle attività di 60 milioni di esseri umani.
L’associazione di interessi con i militari in Myanmar, con il regime laotiano e con la dittatura cambogiana hanno favorito iniziative simili fuori dai confini cinesi con una opposizione strenua ma perlopiù ignorata da parte delle organizzazioni ambientaliste e delle comunità di pescatori e agricoltori locali. Sono molte le specie che si sono estinte nell’ultimo ventennio, segnalano gli ambientalisti, e le conseguenze per l’habitat umano non sono state inferiori. Inoltre, i cambiamenti climatici stanno aggravando le conseguenze di una situazione in cui l’intero ecosistema fluviale fatica a ritrovare un proprio equilibrio. La mancanza di comunicazione rende le mosse cinesi, a partire dal massiccio immagazzinamento delle acque per scopi irrigui, industriali o di fornitura di acqua potabile, un ‘fatto compiuto’ al di fuori dei suoi confini.
Pechino confuta questa visione, parlando di «percezione esagerata» e di «mancanza di comprensione scientifica» dei fenomeni. Nonostante le evidenze dei danni, lo sfruttamento delle acque per la produzione idroelettrica resta – come indica Elizabeth Lai del Centro per la Società civile e la Governance dell’Università di Hong Kong – «prioritaria nell’agenda del governo cinese». Con il duplice scopo di «consentire la certezza dell’approvvigionamento idrico» e nel contempo «fornire energia pulita»: scopi per i quali le dighe sono essenziali, dato che oggi l’energia idroelettrica è la seconda fonte energetica nella Rpc dopo il carbone, fornendo il 20% del totale prodotto ogni anno. Non solo ambiente sano, controllo delle piene e delle siccità e kilowattora in abbondanza, ma la diga delle Tre Gole nella versione ufficiale di Pechino avrebbe dato addirittura una mano nel contenimento del Covid-19, grazie alla fornitura di acqua sicura e costante alle città toccate dalla pandemia.
Ai corsi d’acqua condivisi con altri Paesi viene espressamente attribuita dalla Cina «un’importanza strategica complessiva » a cui si aggiunge la considerazione, forse determinante nel contesto della persistente visione di aree storicamente meno integrate, se non esterne alla sfera cinese, che si tratti di aree sacrificabili allo sviluppo: nella maggior parte delle zone di confine i fiumi inclusi nei progetti di sfruttamento scorrono in territori dove «l’economia e la società locali sono relativamente arretrate». Insomma, aree dove le mega-iniziative energetiche vengono proposte come ‘benefiche’ anzitutto per le stesse popolazioni locali. Così sarebbe per la contea di Medog – parte del Tibet annesso con la forza nel 1951 e poi diviso in varie province oltre che nella Regione autonoma tibetana – individuata come ‘beneficiaria’ prima del progetto. La località scelta per i lavori offrirebbe «ottime condizioni per lo sviluppo dell’energia idroelettrica», secondo Tian Fuqiang, docente nel prestigioso dipartimento di Ingegneria idraulica all’università Tsinghua di Pechino, per un corso d’acqua che risulta «relativamente poco utilizzato» in Cina.
La gestione strategica delle acque transfrontaliere è una politica perseguita anche dall’India, che dal Brahmaputra riceve il 30% delle sue acque dolci e il 44% dell’energia idroelettrica, con le dighe che interessano i corsi degli affluenti dell’Indo prima del loro ingresso in Pakistan e con lo sbarramento di Farakka sul corso indiano del Gange presso il confine con il Bangladesh, che dal 1975 è oggetto di un contenzioso sempre aperto tra New Delhi e Dacca. «Un tempo, si poteva sentirne il rombo da chilometri di distanza. Com’è possibile che negli ultimi 30-40 anni il fiume sia diventato un cimitero? La ragione è la diga di Farakka», spiega l’attivista ambientalista bangladeshi Mizanur Rahman. Con lo sbarramento di Medog la situazione dovrebbe peggiorare ulteriormente, perché la Cina regolerà il flusso del Tsangpo/Brahmaputra secondo le proprie necessità e se l’India sarà costretta a produrre energia con minore quantità di acqua dovrà a sua volta costruire nuovi sbarramenti e bacini con il rischio di desertificazione per intere regioni del Bangladesh, ‘Paese d’acqua’, impegnato in una difficile corsa per garantire sviluppo e benessere ai suoi 170 milioni di abitanti.
Di Stefano Vecchia
Avvenire.it – 22 settembre 2022