Si inaugurerà a Venezia il convegno “Viaggio in Oriente: Ou Topos Tibet”
In quell’occasione ci sarà la premiere del nuovo documentario di Piero Verni Tulku, le incarnazioni mistiche del Tibet.
Vicky Sevegnani che ha potuto vedere il film in anteprima, ne ha parlato con l’Autore
VS (Vicky Sevegnani)
E’ stato molto interessante guardare questo documentario sulla tradizione dei tulku, i “corpi d’emanazione”, perché la visione è avvenuta dopo che avevo letto i due libri che hai scritto sul medesimo argomento. Parlo di libri al plurale perché di Tulku, le incarnazioni mistiche del Tibet ci sono state due edizioni, la prima uscita nel 2015 e la seconda, con un importante nuovo capitolo dedicato ai tulku occidentali, nel 2018. Quindi mi è venuto spontaneo fare un confronto tra le emozioni e le sensazioni che ho provato leggendo i libri e quelle che mi ha invece trasmesso il filmato. Ovviamente per tutti l’argomento è il medesimo. Quella peculiare tradizione del Buddhismo tantrico che si innesta ed è parte integrante della civiltà tibeto-mongolo-himalayana. Nel film, dopo un’esauriente premessa in cui si spiegano i tratti essenziali della cultura tibetana e il suo porsi di fronte al grande mistero della vita, della nascita e della morte, molto spazio viene dato alle interviste fatte ad alcuni tra i principali tulku viventi a cominciare proprio dal Dalai Lama con le cui parole si apre la narrazione filmica. Premesso che la struttura del documentario, la scelta delle immagini, il montaggio, la colonna sonora sono altrettanto validi del testo dei libri (che vorrei ricordare si avvalgono delle splendide immagini del fotografo Giampietro Mattolin)… premesso questo, dicevo, la sensazione finale che ho avuto è un pochino differente.
PV (Piero Verni)
In che senso?
VS
Nel senso che mi sembra il documentario metta l’accento, più dei libri, sul futuro di questa tradizione… un futuro che appare incerto e pieno di insidie. Quando ho terminato di leggere i libri non ho avuto questa sensazione. Capisci quello che voglio dire?
PV
Sì e no… a me pare che l’interrogativo su quanto potrà accadere nel prossimo futuro sia presente anche nei libri. Però devi tenere presente che il tempo della scrittura e quello della narrazione filmica per me sono alquanto differenti. Quello della scrittura, almeno a grandi linee, è più ampio, più dilatabile, più adattabile al racconto. In ambito filmico invece, ritengo che ci siano delle esigenze che si devono rispettare indipendentemente dalla volontà dell’autore. Per quanto mi riguarda, a meno che non si abbia tra le mani un capolavoro, la durata di un documentario dovrebbe essere compresa tra i 20 e i 30 minuti. Altrimenti si rischia di divenire prolissi e annoiare lo spettatore. Tieni presente che mentre un libro solitamente il lettore lo legge un po’ per volta, facendo delle pause, riprendendolo in mano, magari tornando indietro per rileggere delle pagine, un documentario lo vedi tutto in una volta… senza pause o interruzioni. Quindi deve essere per forza più stringato… più sintetico.
VS
Mi stai dicendo che l’interrogativo sul futuro dei tulku nei libri si è come un po’ spalmato su di un racconto più ampio, meno sincopato di quello “imposto” dai tempi di un film?
PV
In un certo senso. Poi ricorda che la lunga riflessione che fa il Dalai Lama sulla tradizione dei tulku con alcune note critiche al riguardo, nel libro è affidata all’Appendice e non si trova all’interno del testo. Potrebbe anche questo spiegare la tua sensazione. Comunque la domanda su come questa tradizione potrà continuare in futuro all’interno di un mondo così diverso da quello in cui nacque oltre 700 anni or sono è un elemento centrale del documentario. E quanto dicono alcuni degli intervistati lo trovo di estremo interesse. Oltre che di estrema attualità.
VS
Ok. Tornando al documentario. Ho trovato molto riuscita la parte introduttiva in cui ricostruisci, in maniera sintetica ma del tutto chiara, i tratti essenziali della Civiltà tibetana facendo peraltro ricorso a delle splendide immagini in bianco e nero tratte da filmati d’epoca.
PV
Grazie del giudizio positivo ma, riguardo alle immagini in bianco e nero, ti devo svelare un piccolo segreto. Non ho potuto, per ragioni economiche (costerebbero circa mille euro al minuto), usare spezzoni tratti da filmati d’epoca. Ovviamente, nella parte in cui racconto il Tibet tradizionale, non potevo ricorrere ai filmati quasi perfetti come sono quelli che si ottengono oggi grazie alle moderne telecamere. Parlare del vecchio Tibet usando riprese moderne avrebbe stonato non poco. Sono andato quindi a “ripescare” le mie primissime riprese girate più di trent’anni or sono in Video 8… quindi di qualità alquanto “povera”, e li ho prima virate in bianco e nero. Poi, lavorando sulla luminanza, la crominanza, il contrasto, le ombre e altri parametri del genere, sono riuscito a ottenere immagini molto, ma molto simili a quelle girate negli anni 10 e 20 dello scorso secolo. Devo dire che, modestia a parte, sono piuttosto soddisfatto di questo lavoro di “restauro” al contrario.
VS
Nel documentario affronti, giustamente, anche un tema politico. Vale a dire l’uso che le autorità di Pechino cercano di fare della tradizione dei tulku non avendo potuto estirparla dal cuore dei tibetani.
PV
Nonostante abbiano cercato di farlo in tutti i modi, ricorrendo spesso a metodi brutali e violenti…
VS
Esattamente. In maniera grottesca un governo che fa professione di ateismo, stila poi un documento ufficiale in cui riconosce alcune centinaia di “corpi d’emanazione”, che chiama “Buddha viventi”, quali unici religiosi a potersi “fregiare” del titolo di tulku. Tutti coloro non compresi in questo elenco, che volessero definirsi tulku andrebbero incontro a dure pene detentive. Si tratta di un aspetto della politica coloniale cinese molto pericoloso e non a caso è uscito da pochi giorni un approfondito rapporto di 30 pagine, a cura di “Tibet Justice Center” e di “International Tibet Network”, intitolato Tibet, the Dalai Lama, and the Geopolitics of Reincarnation. Tu, citando le parole di Kirti Rinpoche, hai collegato questo affronto a un aspetto così importante della cultura tibetana, alla drammatica realtà di quelle donne e quegli uomini che in Tibet da anni ricorrono all’autoimmolazione con il fuoco come estremo gesto di protesta contro l’illegale occupazione del proprio Paese. E nel documentario, per alcuni interminabili secondi, compaiono le visioni terribili di queste povere “torce umane”. Io penso che abbia fatto bene a mostrarle ma non credi che per altri spettatori potrebbero essere immagini troppo crude?
PV
In effetti sono stato molto indeciso perché sono immagini atroci e scioccanti. Però ho ripensato alle parole di Kirti Rinpoche, che è particolarmente sensibile al problema dal momento che molti di quanti si sono immolati col fuoco o erano monaci del suo monastero o persone che abitavano nelle aree limitrofe. Non ho avuto modo di chiedere specificatamente il suo parere al riguardo. Ma alla fine mi sono convinto che avrebbe approvato la mia scelta e, dopo averci pensato a lungo, ho deciso di mettere queste immagini. Sì, credo che lui sarebbe d’accordo con questa decisione. D’altra parte pochissimi parlano di queste “torce umane” e almeno nei lavori di quanti hanno a cuore il dramma tibetano è giusto che di questa terribile pagina si parli. E si veda cosa accade sul “Tetto del Mondo”.
VS
Il documentario lo intendi come “integrazione” dei libri? Nel senso che lo hai immaginato e realizzato come un racconto visivo destinato ai tuoi lettori, appunto una sorta di “integrazione” filmica, o come prodotto a sé stante?
PV
Mah… se devo essere sincero non ho nemmeno io le idee chiarissime in proposito. Quando ho iniziato a pensare al progetto lo vedevo quasi esclusivamente come un lavoro del tutto a sé stante… poi, man mano che procedeva, ho deciso, di non entrare troppo nello specifico degli aspetti più dettagliati della tradizione dei tulku… sempre per riuscire a rimanere all’interno di un tempo ragionevole, quei 20-30 minuti di cui parlavo prima…
VS
Vale a dire?
PV
Vale a dire che nel documentario ho solo accennato a argomenti tipo come avviene il riconoscimento dei piccoli reincarnati… attraverso quali procedure e modalità. Quanto, una volta adulti, ricordano delle vite passate e aspetti del genere che invece tratto diffusamente nei libri. Quindi credo che il film, come riflessione generale su questo aspetto della cultura tibetana, possa vivere di una vita propria. Ma per una spiegazione più dettagliata rimando ai miei libri o ad altri testi che affrontano il medesimo tema.
VS
In ogni caso poter vedere e ascoltare “di persona” questi corpi d’emanazione è un elemento molto importante…
PV
Sì, anche perché quasi tutte le parti delle interviste usate nel documentario sono anche contenute nei libri. Dunque poter, come tu dici, “vedere e ascoltare “di persona” questi tulku di cui si sono lette le parole penso sia interessante per i lettori del testo. Così come ritengo che per gli spettatori del film possa essere interessante approfondire questo argomento tramite la parola scritta.
VS
Una curiosità. Il documentario anziché essere su DVD o BluRay è su una chiavetta USB dalla forma di una carta di credito inserita in un’elegante confezione cartacea. Perché questa scelta?
PV
In effetti è il secondo documentario che veicolo tramite chiavetta USB. Il primo, Cham, le danze rituali del Tibet, uscì nel 2014 e questa scelta fece un certo scalpore tanto che il settimanale “L’Espresso” gli dedicò un articolo (“Il Buddha in una chiavetta”). Per l’epoca si trattava di una scelta abbastanza stravagante. Oggi, dopo ben 8 anni, lo è forse meno. Mi chiedi perché abbia scelto questo media… la risposta è semplice. Perché oggi, nel tempo degli smartphone, dei tablet, delle smart TV, mi sembra che una chiavetta USB consenta una fruizione più duttile e immediata rispetto a DVD e BluRay. Per il documentario sui cham feci anche una limitata tiratura in DVD ma per questo lavoro ho optato solo per la chiavetta.
VS
Per finire, con questo documentario a che tipo di pubblico ti rivolgi?
PV
Allo stesso a cui mi rivolgo con i miei libri e i documentari precedenti. Non ribadirò mai abbastanza che non sono un “tibetologo” ma più semplicemente un giornalista che ha dedicato una parte considerevole della sua professione e della sua stessa vita a cercare di capire la cultura tibeto-himalayana e a comunicare quanto ha compreso. O sperato di aver compreso. Quindi il mio pubblico non ha nulla a che vedere con il mondo accademico ma è costituito da quelle persone che sono genericamente interessate a conoscere la civiltà del “Paese delle Nevi” che le incuriosisce (o addirittura affascina) attraverso un linguaggio semplice e chiaro basato su di una conoscenza dei fatti non superficiale. Questo è almeno il mio intento. A lettori e spettatori, giudicare se ci sono riuscito.
(per informazioni: iniziative_cfz@unive.it).