di GIAMPAOLO VISETTI
(La Repubblica, 11 maggio 2010)
PECHINO – Non possiedo la chiave della mia casa di Pechino. Gentili sorveglianti, giorno e notte, aprono e chiudono l’ingresso della vecchia dimora cinese dove vivo e lavoro. Controllano tutto, per la mia sicurezza. Se voglio andare a dormire, o incontrare qualcuno, devo prima suonare il loro campanello.
Nemmeno l’uscita secondaria dell’ufficio, attraverso telefono e computer, può essere usata liberamente. Le conversazioni sono registrate e una voce cinese spesso suggerisce cautele che non sono in grado di comprendere. La posta elettronica viene filtrata da un esercito di ingegneri del governo. Identificano le persone che mi contattano e, come gesto di riguardo, glielo comunicano.
Internet è sottoposto a verifiche automatiche ossessive. Spesso degenerano nella comicità, innescata dagli equivoci di caratteri linguistici consonanti. “Carota” è un termine bloccato: il primo ideogramma coincide con il nome del presidente Hu Jintao. Quando ingenuamente cerco una parola proibita, o mi attardo su un argomento vietato, lo schermo del pc si svuota e una scritta mi segnala l’errore tecnico che ho commesso. Se i peccati sono più gravi, ancorché inconsapevoli, si viene educati. Per un certo tempo connettersi alla Rete diventa impossibile, o richiede tempi inaffrontabili. Per qualche settimana, dopo l’uscita di un articolo “non armonizzato”, viene a trovarmi la polizia. Ragazzi sorridenti controllano visti, documenti e permesso di lavoro. Sono uno straniero: fanno il loro dovere. L’assistente dell’ufficio viene quindi invitata a “bere un thé” dai funzionari. Al ritorno, con noncuranza, ne approfitta per un breve ripasso sui fondamentali della prudenza che regolano l’informazione ufficiale. Preferisce non sapere le notizie che seguo. Segnala quelle pubblicate sulla stampa di partito.
Non sono un “caso”. Per fare il mio dovere non sono costretto ad andare in esilio a Hong Kong, come Google. Queste attenzioni, oltre alle preliminari “visite mediche”, gratificano tutti i quattrocento corrispondenti stranieri che lavorano in Cina. Al mattino, chi fa jogging, non è più seguito da un corteo di ansimanti agenti con la macchina fotografica scarica. Per i giornalisti cinesi le cure sono più attente. Un Paese con un miliardo e trecento milioni di abitanti, guidato da un potere che non viene eletto dal popolo, non può permettersi di precipitare nel caos dell’informazione indipendente. I cronisti, prima di mettere piede in un giornale, o in una televisione, conoscono lo stretto confine di Stato tra lecito e illecito. Per cancellare me, ammesso che una simile frivolezza interessi a qualcuno, basta interrompere la corrente elettrica. Loro perdono il posto di lavoro e iniziano il pellegrinaggio in tribunale, anticamera della cella. È sufficiente la prospettiva.
La Cina mi censura? No. Posso accedere senza restrizioni a fatti, persone e informazioni che ritengo di interesse pubblico? No. Le autorità di Pechino censurano i mezzi di comunicazione cinesi? Sì. Pensano che il web sia il nemico più pericoloso del regime comunista? Sì.
Queste quattro risposte, per il partito plasmato da Mao e per molte democrazie occidentali, sono ragionevoli. Non risolvono però il dubbio che insegue chi cerca di raccontare il viaggio della Cina contemporanea. Siamo vittime di uno Stato di polizia, fondato su censura e propaganda, o siamo perseguitati dai problemi tecnici che minano una Rete frequentata ogni giorno da quattrocento milioni di internauti? Siamo nel mirino delle autorità, o in quello di una massa di hacker nazionalisti sfuggiti di mano al potere che li ha creati? Il problema è che in Cina l’inverno della stampa si è fatto così rigido che il muro dell’indicibile non distingue più i mattoni che lo cementano. La metamorfosi è compiuta. Censura e propaganda, ormai invisibili e non rintracciabili, si confondono: da fisiche sono mutate in elettroniche, da ideologiche in economiche. Potere socialista e business capitalista si intrecciano, politica e finanza sono braccia dello stesso corpo.
Siamo già oltre la libertà di internet. Il punto è essere autorizzati a riferire i fatti che accadono, senza infrangere la legge, e avere le prove che essi si siano realmente verificati. All’origine della sapiente confusione asiatica, organizzata affinché vero e falso possano coincidere, c’è il vecchio pregiudizio. I cinesi pensano che i giornalisti stranieri siano spie di potenze nemiche. Noi restiamo convinti di non poter mai credere in loro. Una doppia paranoia, alimentata dalla paura, si confronta. Dopo la strage di Tiananmen nel 1989, la repressione dei monaci tibetani nel 2008 e i disordini nello Xinjiang domati l’anno scorso con il sangue, la reciproca autocensura web è la gloriosa vittoria dei tecnocrati al comando.
La costruzione è grandiosa. Fino a ieri Pechino controllava persone e informazioni attraverso il “Dipartimento centrale di propaganda del Partito comunista”. L’apparato, nonostante i casi-simbolo di giornalisti e dissidenti arrestati, era un colabrodo. Con la bomba atomica di internet, seguita dai missili di social network e motori di ricerca, la Cina si a’ vista costretta a erigere la nuova “Grande Muraglia di Fuoco” contro l’invasione delle idee dall’Occidente e l’evasione dei cervelli dall’Oriente. L’ufficio della propaganda è stato superato dal Gapp, la “General Administration of Press and Publication”, a cui è affidata la gestione e supervisione dei media. Quattordici ministeri si contendono l’obbedienza di oltre due milioni di funzionari che battono il cyberspazio per “armonizzare le informazioni” e “guidare l’orientamento dell’opinione pubblica”.
Sono tecnici e ingegneri elettronici raffinati, quasi sempre formati nei laboratori di Stati Uniti e Gran Bretagna. A loro volta si appoggiano a schiere di “volontari” che in ogni villaggio, in ogni fabbrica e in ogni condominio, esercitano l’hackeraggio free-lance su commissione del partito. I dati di 400 milioni di internauti e 193 milioni di blog confluiscono nei tre centri di calcolo di Pechino, Shanghai e Guangzhou. Gli amministratori web intercettano e confrontano ogni parola e ogni immagine con una lista, in continua evoluzione, di termini-chiave e indirizzi proibiti. Ciò che la Cina considera “contro gli interessi nazionali”, sparisce per mano del calcolatore.
Autodifesa, non bavaglio. Ovviamente non basta. Sei milioni di cinesi poco patriottici hanno appreso le manovre per aggirare la “diga verde”, ricorrendo a reti private virtuali e server proxy.
La censura automatica del finto internet cinese, negli ultimi mesi, è stata così completata dai commentatori online di partito. Milioni di opinionisti, assoldati dai funzionari locali, combattono la guerra della manipolazione. Non si limitano a inviare alle redazioni la “linea ufficiale” sui fatti, gli eventi da enfatizzare e quelli da tacere. Assumono false identità e ogni giorno scrivono migliaia di commenti contro la minima critica sfuggita al setaccio dei computer. Secondo il ministero della tecnologia informatica, prima che la reazione popolare possa sfuggire al controllo, c’è oggi una finestra di due ore per bloccare un’informazione non filtrata e inondare il web di giudizi che la demoliscono. Un test sulla “tempesta di positività” ha stabilito che se il team della propaganda cinese funziona, possono bastare venti minuti per convincere che un fatto non sia accaduto, o che la denuncia di uno scandalo sia frutto di “intromissioni di potenze concorrenti decise ad arginare lo sviluppo della Cina”.
Contro la realtà virtuale, Pechino schiera la falsificazione virtuale. Impedisce ai giornalisti di raggiungere eventi e persone reali. Semplifica le nostre giornate con decine di conferenze stampa “obbligatorie”, dove le domande non sono previste, e regala tempo libero con la nuova offensiva delle news in inglese. Tivù, agenzie e giornali del partito-Stato offrono ormai abbondante cibo precotto allo stomaco vorace degli impoveriti media stranieri. Possiamo raccontare la Cina senza conoscerla e magari senza metterci piede, senza la barriera della lingua, a basso costo e senza noie. Ma soprattutto la Cina si appresta a occupare l’attenzione mediatica globale con la sua visione in inglese sulle vicende internazionali. L’autoprodotta glorificazione nazionale di Cctv e della neonata Cnc contende ormai il campo alla Cnn.
Dobbiamo riconoscere che non sono le mail deviate a indirizzi sconosciuti, o l’improvvisa ribellione di Google alla censura che aveva accettato, a indicare l’escalation del controllo cinese sulla vita di chi abita dentro e fuori questo continente. Il gradimento della democrazia è crollato con gli indici delle sue Borse. Pechino non ha più alcun timore che il suo esplosivo ceto medio, ostaggio dei mutui, possa ridiscutere la stabilità dell’opzione autoritaria. Il problema è che l’abbraccio tra Partito comunista e imprese privatizzate, fondato sulla corruzione, si è consumato e si estende ormai a governi e multinazionali stranieri, profeti del furto perfezionato in sistema dell’equilibrio planetario. Grazie a internet, regalato ora al monopolio di Baidu, la censura cinese scopre semmai le comodità dell’elettronica. Nascondere le realtà, o modificarla, non serve più, quando basta una mail automatizzata per togliere le notizie dai giornali, stranieri compresi.
Sono felice di non possedere la chiave della mia casa di Pechino. Sono nelle mani sicure di vecchi militari che suonano il flauto. Quando esco si accendono di entusiasmo e chiedono al tassista se per caso mi stia per portare all’aeroporto internazionale. È il tempo che sempre aspettano, quello “senza problemi”. Non hanno ancora capito cosa è vietato e cosa no. Mi negano una sola informazione, l’unica che in Cina tenderei a ritenere verosimile: la temperatura dell’aria. Presenta il prefisso “wendu”: troppo simile al cognome del premier Wen Jiabao.
Giampaolo Visetti
(La Repubblica – 11 maggio 2010)