PIERO VERNI RISPONDE A ROBERTO PINTER

In relazione al dibattito Pannella-Verni a Radio Radicale abbiamo ricevuto e volentieri pubblicato l’intervento-risposta di Roberto Pinter consigliere di Italia Tibet che ringraziamo per avere espresso le proprie opinioni che, come si è potuto notare, sono decisamente diverse da quelle di Carlo Buldrini. Puntuale è anche arrivato il lungo e articolato commento di Piero Verni che altrettanto volentieri pubblichiamo. Con questo contributo, a meno che non ci scriva Marco Pannella… riteniamo di chiudere sul sito di AIT questa interessante dialettica scaturita dalla trasmissione di Radio Radicale, che continua comunque nei vari blog dei protagonisti, dove ancora una volta ci si è confrontati sul tema Tibet: Autonomia-Indipendenza: Che fare? Credo che tra di noi “attori” della causa e amici veri del popolo del Tibet ( tutti…indistintamente “autonomisti” e “indipendentisti”..) questo debba essere il modo giusto per confrontarsi senza timori o remore e per arrivare all’obiettivo comune. Nel dibattito politico è facile arrivare a toni accesi o addirittura infatuati e a volte ci si contesta e confuta con grande passione proprio perchè la nostra personale visione della politica, o dell’esistenza in generale, è un qualche cosa che, quando è in buona fede, scaturisce dal nostro essere più profondo e ci fa sentire portatori, o comunque propositori, di una qualche soluzione per i problemi degli altri. In questo contesto ritengo coerente con quanto già espresso la posizione “istituzionale” di Italia Tibet che ha ospitato pareri, soluzioni, analisi decisamente contrastanti ma, ritengo, tutte animate da una indiscussa buona fede che vede come obiettivo primario il diritto all’autodeterminazione del Popolo Tibetano; in questo caso facendo proprio il messaggio del Dalai Lama sul valore del dialogo come unica soluzione dei conflitti. Almeno fra di noi, veri amici del Tibet. Penso che il nostro dibattere possa essere di qualche utilità, oltre che per nostri soci e coloro che visitano il nostro sito, anche per i nostri amici tibetani in Italia e l’invito alla partecipazione a queste discussioni è sempre più che calorosamente confermato.
Claudio Cardelli

Caro Pinter,

anticipo subito che se lei conosce le mie posizioni io purtroppo non ho la fortuna di conoscere le sue, salvo quelle contenute nell’intervento pubblicato sul sito dell’Associazione Italia-Tibet. Quindi mi scuso in anticipo se, nel risponderle, incorrerò in qualche imprecisione.

Mi permetta di partire da quello che mi riguarda più da vicino, vale a dire alcune sue sintetiche riflessioni su i miei punti di vista relativi alla questione tibetana. Lei afferma di trovarle “scontate”. Bene, è un suo giudizio di merito e in quanto tale insindacabile. Su questo potrebbe avere anche ragione. Però non ha sicuramente ragione quando asserisce che, sempre le mie opinioni, sono “… più volte a rispondere alle proprie domande che ad offrire una via d’uscita al popolo tibetano”. Qui caro Pinter si sbaglia di grosso. Credo che ci siano migliaia di lettori dei miei articoli, dei miei libri, del mio piccolo blog che potrebbero smentirla. Sono decenni che tento di spiegare quelle che, a mio modestissimo parere, dovrebbero essere le soluzioni per una uscita positiva dalla tragedia tibetana. Probabilmente lei non è d’accordo con quanto propongo ma perché arrivare addirittura a negare che io avanzi delle proposte quando basterebbe dare una fuggevole occhiata anche solo ad alcuni interventi che sono stati pubblicati sul meritorio sito dell’Associazione Italia-Tibet, per vedere che le cose non stanno così? Niente di personale, caro Pinter, ma ritengo che sarebbe bastato scrivere qualcosa tipo “… conosco le posizioni del pessimo Verni ma le trovo scontate e non ne condivido nemmeno una virgola”. Comunque veda lei.

Un altro punto del suo intervento che in qualche modo mi riguarda direttamente è il suo accenno allo statuto dell’Associazione Italia-Tibet. Lei infatti afferma, “Io credo che la nostra associazione per statuto debba riconoscersi nelle posizioni espresse dal Dalai Lama e dal parlamento e governo in esilio…”, riferendosi ovviamente alla Via di Mezzo. Avendo scritto quello statuto di mio pugno (letteralmente, dal momento che nel remoto marzo 1988 scrivevo tutto con la penna stilografica) mi duole contraddirla. Infatti nel testo in questione io, e gli altri co-fondatori di A.I.T. (all’interno della quale oggi solo l’ottima Vicky Sevegnani svolge ancora un ruolo dirigenziale), volevamo mettere in risalto come ai nostri occhi unicamente il capo di stato tibetano e il suo governo in esilio fossero  gli effettivi rappresentanti della Nazione tibetana soggetta a illegale occupazione da parte della Repubblica Popolare Cinese. E infatti lo statuto di A.I.T. al comma b) dell’Articolo 2, recita:

“L’Associazione riconosce S.S. il Dalai Lama come massima autorità spirituale e politica del popolo tibetano e il Governo Tibetano in Esilio come unico rappresentante legale e morale della Nazione Tibetana.”

Ma, come le dovrebbe essere chiaro, da questo riconoscimento non consegue alcun obbligo statutario per l’Associazione di riconoscersi nella attuale “Via di Mezzo”. Anzi, se volessimo proprio incamminarci su questo sdrucciolevole terreno, potremmo avere delle sorprese. Infatti al comma c) del medesimo articolo 2, si legge:

“c) L’Associazione sostiene il Piano di Pace in Cinque Punti che il Dalai Lama ha proposto per la soluzione del problema tibetano”.

Qui sì che siamo in presenza di una adesione esplicita ad un ben preciso documento politico. E dato che il Piano di Pace in Cinque Punti sostiene apertamente l’idea del Tibet come nazione indipendente, come la dovremmo mettere -“per statuto”- con la scelta tra Rangzen e Via di Mezzo? Tanto per rinfrescarci le idee, cito alcuni passaggi del Piano di Pace in Cinque Punti che statutariamente l’Associazione Italia-Tibet sostiene. En passant ricordo che si tratta di un discorso pronunciato dal Dalai Lama il 21 settembre 1987 di fronte alla Commissione per i Diritti Umani del Congresso degli Stati Uniti d’America. Ecco alcuni brani fondamentali di quel discorso (le sottolineature in grassetto sono mie):

“… il Tibet ha svolto nel corso della Storia un ruolo essenziale nel mantenimento della pace e della stabilità. Questo è il motivo per cui, in passato, gli imperi dell’Asia facevano di tutto per tenersi l’un l’altro fuori dal Tibet. Il valore del Tibet quale stato-cuscinetto indipendente è stato essenziale per la stabilità della regione. Quando la appena nata Repubblica Popolare della Cina invase il Tibet nel 1940-1950, essa creò una nuova fonte di conflitto. Ciò fu più evidente quando, in seguito alla rivolta nazionale del Tibet contro i cinesi e alla mia forzata fuga in India, nel 1959, le tensioni tra Cina e India culminarono nella guerra di confine del 1962. Oggi, grandi schieramenti di truppe sono di nuovo ammassati da entrambi i lati del confine himalayano e la tensione è diventata ancora una volta pericolosamente alta. La vera questione, naturalmente, non è la demarcazione del confine Indo-Tibetano, ma l’illegale occupazione del Tibet da parte della Cina, che ha dato a quest’ultima l’accesso diretto al subcontinente indiano. Le autorità cinesi hanno tentato di confondere i termini della questione, sostenendo che il Tibet è sempre stato parte della Cina, ma questo non è vero. Il Tibet, quando l’Armata di Liberazione Popolare invase il paese nel 1949-1959, era uno stato completamente indipendente da quando gli imperatori tibetani unificarono il Tibet, oltre mille anni fa.  Fino alla metà di questo secolo il nostro paese fu in grado di mantenere la sua indipendenza.”

Inoltre, il primo e più importante dei Cinque Punti è molto chiaro relativamente al fatto che il Tibet dovrebbe mantenere la sua indipendenza. Infatti così recita (le sottolineature in grassetto sono sempre mie),

“Trasformazione di tutto il Tibet in una zona di Pace.

Propongo che tutto il Tibet, comprese le provincie orientali del Kham e Amdo, sia trasformato in una zona di “Ahimsa”, termine hindi usato per significare uno stato di pace e di non- violenza. L’istituzione di una tale zona di pace sarebbe coerente con il ruolo storico del Tibet, di nazione buddhista neutrale e pacifica e stato-cuscinetto che separa le grandi potenze del continente. Sarebbe anche coerente sia con la proposta nepalese di proclamare il Nepal quale zona di pace, sia con il dichiarato sostegno della Cina per tale proclamazione. La zona di pace proposta dal Nepal avrebbe una forza ben più grande se potesse includere il Tibet e le zone limitrofe. Riconoscere il Tibet quale zona di pace richiederebbe il ritiro delle truppe cinesi e delle installazioni militari, il che darebbe anche all’India la possibilità di ritirare le sue truppe e le installazioni militari dalle zone himalayane a confine con il Tibet.”

 

Riassumendo. Statutariamente l’Associazione Italia-Tibet si impegna a sostenere un documento politico in cui è chiaramente e più volte ribadito che il Tibet era uno stato sovrano, in cui si definisce “illegale” l’occupazione militare cinese ed in cui si chiede il ritorno del Tibet alla sua storica funzione di stato cuscinetto indipendente. Chiaro? Direi di sì. Dunque ci andrei molto piano, caro Pinter, a sostenere che, “… la nostra associazione per statuto debba riconoscersi nelle posizioni espresse dal Dalai Lama e del parlamento e governo in esilio”. Da osservatore esterno (non sono più iscritto ad A.I.T. dal 2002) mi sembra maggiormente equilibrata la posizione del presidente Claudio Cardelli quando scrive, “L’associazione Italia-Tibet non prende una posizione “ufficiale” o istituzionale sull’alternativa Autonomia-Indipendenza. E’ stato già ripetuto in diverse occasioni. Tra i nostri soci non è in corso, e speriamo non lo sia nemmeno in futuro, una guerra tra due “linee” contrapposte. Sia tra i soci e sia nello stesso consiglio su questo “dilemma” ci sono posizioni diversificate spesso sfumate o a volte, più raramente, contrapposte. Abbiamo tuttavia intenzione di aprire al nostro interno e verso l’esterno una discussione serena e approfondita. L’Associazione Italia-Tibet non è quindi disponibile a mettere brutalmente sotto accusa, come qualcuno fa sia all’interno della comunità tibetana sia tra i gruppi di sostegno, la politica del Governo Tibetano In Esilio, ma non accetta nemmeno una messa all’indice di quanti propongono soluzioni diverse dalla Via di Mezzo. Non possiamo ignorare il grido dei tibetani all’interno del Tibet che, anche a costo di farsi arrestare o massacrare, scendono per le strade chiedendo l’indipendenza per il loro paese”.

Dopo questa lunga premessa, come dire, un po’ personale vorrei venire ad alcune cose che lei scrive nel suo intervento. Sono felice che lei stimi Carlo Buldrini, a mio avviso una delle menti più lucide che ci sono in Italia per quanto riguarda le vicende del Tibet e dell’India. Ma non mi sembra che faccia un buon uso di questa stima quando riduce il lungo, appassionato, ampio e dettagliato intervento di Carlo, all’invito ad una “resa dei conti” tra posizioni indipendentiste e autonomiste. Vale a dire alle ultime cinque o sei righe del suo articolo. Non voglio certo ergermi a difensore d’ufficio di Carlo Buldrini. Lo considero più intelligente, colto e preparato di me quindi, se ne avrà voglia, risponderà in prima persona a questa sua forzatura riassuntiva. Voglio solo mettere in risalto il modo poco “cordiale” con cui lei sembra trattare quanti esprimono opinioni differenti dalle sue. Peccato.

Lei parla anche della disperazione del popolo tibetano. Come non consentire. Ho malauguratamente sotto gli occhi, l’articolo di Payul che riporta l’omicidio compiuto il 10 maggio da un giovane studente tibetano a Delhi che ha ucciso a coltellate un altro giovane tibetano che pareva gli avesse rubato il telefono portatile. E’ il secondo caso di omicidio tra tibetani solo in questa prima parte dell’anno e mi appare un segno inquietante del senso di disperazione, di malessere profondo, di frustrazione di cui sono preda sempre più tibetani dell’esilio. Lei dice che il Dalai Lama sta offrendo al suo popolo una via d’uscita per non farlo cadere nella disperazione. Ma accade invece il contrario. Di fronte alla totale assenza di un qualsivoglia risultato della più che ventennale Via di Mezzo, la disperazione di molti tibetani (giovani e non) sta raggiungendo pericolosi livelli di guardia. Soli, nella loro condizione di profughi nella diaspora e di sfruttati e segregati in Tibet, i tibetani sono oggi più disperati che mai. E li si è privati anche della idea forza che li aveva tenuti uniti in questi lunghi decenni di esilio. L’idea forza di Rangzen, vale a dire il collante grazie al quale erano riusciti a superare difficoltà inenarrabili e a salvare l’essenziale della loro cultura. Il sogno di poter tornare un giorno nella loro Nazione nuovamente libera e indipendente. Quello stesso sogno, ad esempio, che ha tenuto coeso per duemila anni il popolo ebraico fino a quando non è divenuto realtà con la nascita di Israele.

Lei Pinter torna spesso sul tema dell’impazienza. Non mi pare essere quello il vero punto. Ma visto che abbiamo rievocato il Piano di Pace in Cinque Punti, vorrei anche ricordare (e con me se lo ricorderanno i soci “anziani” di A.I.T.) come proprio in un incontro con l’Associazione Italia-Tibet, il Dalai Lama parlò di cinque o sei anni al massimo per poter salvare il Tibet. Trascorso questo lasso di tempo probabilmente non ci sarebbe stato più alcun Tibet da liberare. Sento come fosse oggi il tono di urgenza con cui ci esortò a lavorare per difendere il Paese delle Nevi. A spanne potremmo essere stati nei primi anni ’90 dello scorso secolo, vale a dire un ventennio fa. Pochi giorni or sono, il Dalai Lama ha rilasciato un’intervista alla Associated Press in cui, dopo aver ammesso il sostanziale fallimento della sua politica, si è detto però fiducioso che per il futuro ci potranno essere buone possibilità di arrivare ad un accordo con Pechino. Magari tra 10 o 20 anni. Mah… vedremo se tra altri 10 o 20 anni il Tibet ci sarà ancora. A parte questo, il vero problema è che le autorità di Pechino non vogliono concedere nulla al Dalai Lama (e a nessun altro). Il vero problema non è che la Via di Mezzo sia una strada lunga… non è che vada piano ma vada lontano (come il P.C.I. di Togliatti, che anche quello poi!)… è che non conduce da nessuna parte. O peggio ha incagliato la battaglia per il Tibet nel “cul de sac” che tutti vediamo e che mi pare difficile negare. Se questo è realismo mi chiedo cosa sia irreale. Prendere i propri desideri per realtà era un suggestivo slogan del Maggio Francese ma non mi pare stia funzionando bene con i Signori di Pechino.

La richiesta di indipendenza invece sarebbe più realistica? Nelle attuali condizioni certo che no, ma almeno è un’idea forza grazie alla quale, come già detto, il popolo tibetano dentro e fuori il Tibet è riuscito a sopravvivere come entità, cultura e nazione non rappresentata. E’ un progetto politico, come spiega molto bene lo scrittore e attivista tibetano Jamyang Norbu nel suo Rangzen Charter (traduzione italiana, La Carta dell’Indipendenza tibetana, terza edizione Torino 2007), che può consentire alle donne e agli uomini del Tibet di continuare a combattere per l’inalienabile diritto all’autodeterminazione. Ecco, caro Pinter, il nocciolo della questione. Combattere, con le armi e i metodi della non violenza, per la propria libertà. Perché nessuno te la regala. Così come il Budda insegnava che nessuno potrà mai liberarsi al posto nostro e che la personale liberazione interiore la si deve conquistare individualmente al prezzo di molte fatiche, analogamente dovrebbe essere chiaro che nessun potere regalerà mai a nessun popolo la libertà. Lei dice che se si rivendica l’indipendenza del Tibet ci si deve augurare il martirio dei tibetani. Ma perché? Cosa stanno subendo da oltre 50 anni i tibetani se non un vero e proprio martirio? E’ in atto sul Tetto del Mondo un genocidio o no? Lei pensa che se i tibetani si ribellassero, anziché per l’indipendenza del proprio Paese come hanno fatto e stanno facendo, per la buona e cara Via di Mezzo la risposta di Pechino sarebbe diversa? Se anziché urlare Rangzen scendessero per le strade urlando Du-ma-pa (Via di Mezzo in tibetano) la reazione sarebbe diversa? Lei ha una vaga idea, caro Pinter, del martirio a cui sono sottoposti i discepoli della scuola spirituale Falun Dafa? Eppure non manifestano, non gettano sassi, non urlano nemmeno. Vengono uccisi, torturati, incarcerati solo perché non vogliono rinnegare la loro fede e la loro pratica meditativa. E allora non prendiamoci in giro. Nella Cina di oggi, qualsiasi richiesta che non sia contemplata dal potere porta dritta dritta al martirio. Che si voglia l’indipendenza del Tibet e del Turkestan orientale o la sola autonomia… che si voglia un sindacato libero o la possibilità di organizzarsi in leghe contadine… che si voglia la libertà religiosa o quella di navigare su Internet senza censure. Questa è la verità. Dire che il martirio ci sarebbe solo per quelli che vogliono l’indipendenza mi pare un pochino fuori da qualsiasi logica e razionalità.

Se lei avesse avuto la compiacenza di ascoltare la conversazione radiofonica che ho avuto con Pannella, avrebbe potuto constatare che invece di avvitarmi in solipsistiche risposte alle mie domande ho cercato, anche in quella occasione, di spiegare come l’unica soluzione al problema tibetano potrà essere un effettivo cambiamento dello stato di cose presente a Pechino. Vale a dire un cambio di regime. Cambiamento possibilmente graduale e morbido ma cambiamento autentico. E poiché cambiamenti del genere non cadono dal cielo come grazioso dono degli dei ma sono il frutto della lotta degli oppressi contro i loro oppressori (Carlo Buldrini non me ne abbia per questo linguaggio vetero marxista) sarebbe bene che anche i tibetani dessero la loro dose di picconate al Muro di Pechino. Ovviamente parlo della dirigenza tibetana dell’esilio. I tibetani in Tibet non hanno mai smesso di ribellarsi e solo grazie al loro eroismo l’occupante cinese non è ancora riuscito a “normalizzare” la situazione sul Tetto del Mondo. Sto dicendo, caro Pinter, che a Dharamsala dovrebbero capire che il loro continuo gioco al ribasso non ha prodotto, non sta producendo e non produrrà alcun risultato. Pechino ritiene che più apre la società e l’economia cinese al mercato e alle sue turbolenze più deve aumentare il controllo leninista sulla società. Evito di portare i milioni di esempi che potrei fare al riguardo e mi limito a rimandarla al bell’articolo sulla macchina censoria cinese del corrispondente di Repubblica Giampaolo Visetti che è stato prontamente (cela va sans dire) pubblicato sul sito di A.I.T. Per quanto Dharamsala possa dichiarare la propria adesione al sistema socialista cinese, per quanto possa dire che non ha alcuna intenzione di mettere in discussione il potere comunista, per quanto possa sgolarsi a gridare che “non vuole in nessun modo il ritiro dell’esercito cinese dalle aree tibetane” e per quanto possa umiliarsi (lo ha capito Pinter che sto parlando della famigerata “Nota al Memorandum”?) scrivendo che, “… che i tibetani che vivono nella Repubblica Popolare Cinese hanno fatto dei progressi, migliorando la propria situazione sociale, scolastica, sanitaria ed economica”, non otterrà niente. Perché il sistema comunista è irriformabile. Non cambia, non può cambiare perché se cambiasse non sarebbe più sé stesso. Non è cambiato in Unione Sovietica, in Jugoslavia, in Albania, nei paesi del Patto di Varsavia. Non si è mai riformato. Ad un determinato momento è semplicemente crollato. Figuriamoci se si riformerà in Cina i cui dirigenti, ancora oggi, continuano ad accusare Gorbaciov di aver ucciso il socialismo sovietico coniugando nel medesimo tempo riforme economiche ed aperture politiche.

Ecco i motivi per cui io, Carlo Buldrini e tanti altri amici del Tibet (e non dell’ultima ora) riteniamo che continuare ad insistere con la proposta della Via di Mezzo sia un errore madornale. E guardi che all’inizio, nel 1988 quando con Vicky Sevegnani venni personalmente invitato dal Dalai Lama alla sede del Parlamento Europeo di Strasburgo per poter ascoltare di persona la sua esposizione di quella che sarebbe passata alla storia come la Strasbourg Proposal, non ero affatto contrario. Anzi, tentavo di spiegare ai molti tibetani che invece erano contrariati e scioccati (per la prima volta il Dalai Lama si dichiarava disposto a rinunciare alla richiesta di indipendenza in cambio di una significativa autonomia) che era giusto verificare se vi fosse qualche cosa di vero nella frase di Deng Tsiao Ping, “… riguardo al Tibet possiamo discutere di tutto, tranne che dell’indipendenza”. Sono passati 22 anni da quel giugno 1988, credo che sia un tempo sufficiente per qualsiasi verifica. E per trarre le dovute conclusioni.

Bene, caro Pinter, mi scuso per averla tirata così in lungo. Termino facendole una proposta. Con la comune amica Marina Mattedi, instancabile animatrice del gruppo di sostegno trentino “Il Sentiero del Tibet”, stiamo pensando per il prossimo autunno di proiettare a Trento il documentario “Tibet, quale futuro” del regista Guido Ferrari che la piccola casa di produzione video (www.breizhproductions.com) che ho recentemente messo in piedi, ha pubblicato. Si tratta di una bella inchiesta, rigorosamente neutrale, sul tema Indipendenza-Autonomia che Ferrari ha realizzato l’anno scorso a Dharamsala. Potrebbe essere l’occasione per organizzare, dopo la proiezione, una tavola rotonda in cui confrontare pubblicamente e in un clima conviviale, i nostri rispettivi punti di vista. Mi faccia sapere, se crede, cosa ne pensa. Nel frattempo colgo l’occasione per inviarle i miei più cordiali saluti,

Piero Verni