UN TIBET SENZA IL DALAI LAMA

di Carlo Buldrini

(Il Foglio – 13 aprile 2011)

 

Le elezioni si sono svolte il 20 marzo ma sarà solo il prossimo 27 aprile che si saprà chi, tra i tre candidati Lobsang Sangay, Tenzin Namgyal Tethong e Tashi Wangdi, sarà stato eletto per i prossimi cinque anni “kalon tripa” (primo ministro) del Governo tibetano in esilio. Sarà lui a ereditare, dopo 369 anni, il potere politico che fu già dei Dalai Lama.

La storia spesso riserva sorprese: dopo 52 anni di resistenza i tibetani continuano a sperare

di Francesco Pullia

 

 

Sono ormai trascorsi ben cinquantadue anni da quando, il 10 marzo 1959, i tibetani si ribellarono apertamente alle gravi conseguenze dell’invasione del 1950 da parte della Cina comunista. La “rivolta di Lhasa”, così come viene ricordata, finì nel sangue. La repressione compiuta dall’esercito cinese fu durissima e segnò una tragica svolta.
Il Dalai Lama, non ancora quattordicenne, fu costretto a seguire la via dell’esilio in India dove, dopo un viaggio spossante tra gli insidiosi valichi innevati, trovò ospitalità insieme ad oltre centomila profughi. Lì diede successivamente vita ad un governo democratico, con sede a Dharamsala, nell’Himachal Pradesh, nel Nord dell’India, con lo scopo di sostenere la lotta dei tibetani e la sopravvivenza al genocidio perpetrato da Pechino.

Se sulla Cina soffia il vento del Maghreb… «Pechino teme il contagio»

di Valter Delle Donne
Intervista con l’ex presidente dell’associazione Italia-Tibet:

 

Alla vigilia dell’anniversario della rivolta del 10 marzo 1959 le autorità di Pechino hanno sospeso tutti i viaggi turistici in Tibet chiudendo, di fatto, la regione agli stranieri. Ufficialmente la sospensione è stata giustificata «soprattutto a causa del freddo invernale, la limitata offerta di alloggio e preoccupazioni per la sicurezza». Una versione ufficiale a cui non crede ovviamente Pietro Verni, già presidente dell’Associazione Italia -Tibet, tra i massimi esperti italiani di civiltà orientali nonché autore dell’unica biografia italiana autorizzata del Dalai Lama. Verni non è molto sorpreso dall’ennesimo giro di vite di queste ore del regime nei confronti della popolazione locale.

Io, giornalista “a lezione” dalla polizia. Così la Cina lotta contro la rivoluzione.

di Giampaolo Visetti

Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d’ufficio. Scomodo, nel caso di un’urgente necessità, ma accettabile dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all’improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile. Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall’improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell’ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d’acqua lasciate a metà. Due agenti, ai suoi fianchi, sorridono e scrutano il muro. Un terzo aziona una telecamera e ci tiene a mostrare lo zelo con cui riprende le “lezioni di comportamento agli amici giornalisti occidentali”. Non ce l’hanno con me. Sono uno qualsiasi tra le centinaia di convocati “per comunicazioni urgenti” nelle ultime ore. Il funzionario legge le istruzioni su un gobbo. Premette: “Quella che voi chiamate rivoluzione dei gelsomini in Cina non c’entra e non è oggetto di questo amabile colloquio. E poiché non sappiamo cosa sia, non sono autorizzato a parlarne”.

L’egitto e le paure di Pechino: una rivoluzione in Cina è inevitabile

di Wei Jingsheng

(AsiaNews, 23 febbraio 2011)

 

Uno dei maggiori dissidenti cinesi analizza il comportamento del Partito comunista cinese – che censura e minimizza le notizie riguardanti l’onda democratica nei Paesi arabi – e opera un paragone fra quei popoli e quello cinese. Oramai, spiega, “soltanto chi parla per il popolo viene ascoltato. E in Cina è tutto pronto per una nuova rivolta popolare”.