Battaglia per la successione al Dalai Lama. Pechino vara una legge: “Deve nascere in Cina”

di Giampaolo Visetti
(Repubblica.it, 23 febbraio 2011)

 

PECHINO. Il Dalai Lama afferma di essere prossimo alla “pensione” e tra Pechino e Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, è braccio di ferro per la successione. Da anni la Cina tenta di assumere il potere di nominare l’erede dell’attuale guida spirituale dei buddisti, completando così la conquista politica e culturale del Tibet. E’ una guerra che coinvolge anche l’Occidente, Stati Uniti in testa, combattuta a colpi di sequestri di persona, designazioni unilaterali e promozione di monaci lamaisti a leader del partito comunista. Ma ora, a poche settimane dall’annunciato ritiro di Tenzin Gyatso, 75 anni, XIV Dalai Lama e premio Nobel per la pace, Pechino sfodera per la prima volta l’arma del diritto. L’amministrazione statale per gli affari religiosi, una sorta di ministero che controlla la gestione delle diverse confessioni, ha annunciato il varo di una legge che fissa i criteri per una “legittima reincarnazione di Buddha”.

Credere a Hu Jintao?

di Piero Verni

(da Il Riformista, 21 gennaio 2011)

 

Eppure ci si erano messi di impegno organizzando manifestazioni, sit-in di protesta, petizioni, invii di lettere. Ma gli accorati appelli rivolti nei giorni scorsi ad Obama da decine di organizzazioni umanitarie e dai gruppi in esilio di tibetani, uiguri, taiwanesi, dissidenti cinesi ed esponenti della scuola religiosa Falun Dafa, sembrano essere caduti nel vuoto. Infatti, durante la visita negli USA di Hu Jintao (probabilmente l’ultima visto che il mandato del leader cinese scadrà nel 2013) il presidente americano ha usato il guanto di velluto. Oltre ad aver offerto all’ospite quel pranzo di gala, che gli era stato negato da Bush nel 2006, le dichiarazione rilasciate dal presidente democratico sono state più che morbide. Felpato l’accenno alla drammatica situazione dei diritti umani in Cina, “La storia dimostra che le società sono più armoniose, le nazioni hanno più successo ed il mondo è migliore quando i diritti e le responsabilità di tutti i popoli sono rispettati. Inclusi i diritti universali di tutti gli esseri umani”. Soave l’auspicio che Pechino e Washington possano, “… cogliere l’opportunità di lavorare insieme mano nella mano». E più che moderati anche gli accenni alle tensioni generate nel mondo economico americano dalla costante sottovalutazione dello yuan, “Ho detto al presidente Hu che accogliamo con favore l’aumento della flessibilità deciso dalla Cina per la sua valuta e che continueremo ad insistere perché il valore della moneta cinese sia sempre più fissato dal mercato.”

Obama a Hu: più rispetto per i diritti umani

di Massimo Gaggi

(Corriere della Sera – 20 gennaio 2011)

 

 

Barack Obama chiede alla Cina un maggior rispetto dei diritti umani: “Abbiamo storie e culture molto diverse, ma riconoscere la libertà di parola, religiosa e di riunione contribuirà alla prosperità e al successo del vostro popolo”. Hu Jintao, prima schiva la domanda di un giornalista americano trincerandosi dietro il cattivo funzionamento della traduzione simultanea. Poi, nuovamente incalzato durante la conferenza stampa, spiega che, nei limiti di un sistema assai diverso da quelli occidentali, la Cina vuole rispettare i diritti umani fondamentali e si propone di fare altri progressi in questa direzione. Ma non accetta pressioni straniere su quella ch considera una sua questione interna.

Wen a New Delhi. Ma non è Cindia.

di Matteo Tacconi

(Europaquotidiano.it, 17 dicembre 2010)


Quattrocento uomini d’affari con il premier cinese. Ma tra i due big asiatici resta la diffidenza.

 

Una delegazione impressionante, quella che il primo ministro cinese, Wen Jiabao, s’è portato dietro ieri a New Delhi: 400 uomini d’affari. Quasi il doppio dei 215 che avevano seguito Obama durante la sua trasferta di novembre. Sei e dieci volte, rispettivamente, dei 60 e dei 40 che hanno accompagnato in India il presidente francese Nicolas Sarkozy (a New Delhi dieci giorni fa) e il primo ministro britannico David Cameron, giunto a luglio. La più che nutrita pattuglia cinese chiarisce senza lasciare scampo ai dubbi lo scopo della visita di Wen, che durerà tre giorni: affari, affari e ancora affari.

Il Nobel del Dalai Lama

di Piero Verni

(Il Riformista – 10 dicembre 2010)

 

Oslo, dieci dicembre 1989. Nella grande sala della Universitetets Aula, tradizionale sede della consegna del Premio Nobel per la Pace, a mezzogiorno accompagnato  da Egil Aarvik presidente del Comitato Nobel, il Dalai Lama entra nella grande sala. Sorride mentre si drappeggia sulle spalle lo scialle amaranto della tunica monastica. Dopo aver salutato il Primo Ministro e i membri del governo norvegese si siede nella poltrona della prima fila riservata ai vincitori del Premio. Dopo qualche istante arriva re Olaf con l’intera famiglia reale. La cerimonia si apre con le parole di Egil Aarvik che termina invitando il Dalai Lama a salire sul podio per ricevere il Premio Nobel per la Pace, la medaglia d’oro e il diploma. L’Oceano di Saggezza recita una breve preghiera, pronuncia alcune frasi in tibetano in cui propone i temi centrali del suo pensiero e della sua filosofia e poi, passando all’inglese, inizia il suo discorso. Descrive sè stesso come “… un semplice monaco buddhista che segue con profonda convinzione un modo di vita spirituale: il nobile sentiero del Buddha la cui essenza è l’unione della saggezza e della compassione universale”. E continua dicendo, “Sono anche una persona che, attraverso il naturale corso degli eventi, è legata al destino del Tibet, del suo popolo, della sua cultura e ha dedicato tutte le proprie energie all’adempimento di questo dovere. Questo premio rappresenta il riconoscimento e l’appoggio internazionale per la giusta lotta del popolo tibetano per la libertà e per l’autodeterminazione. Spero e prego che presto possa prevalere la verità e i diritti del mio popolo vengano ristabiliti”. Ricorda infine i giovani dissidenti cinesi che lo fanno essere ottimista per il futuro della Cina e conclude riaffermando la sua incrollabile fiducia nell’essere umano e nei metodi non violenti intesi come unica via per far prevalere giustizia e diritti umani.