di Giampaolo Visetti
(La Repubblica, 27 ottobre 2010)
Un fatto è certo. A Liu Xiaobo, l’8 ottobre, è stato assegnato il premio Nobel per la pace. Tutto il resto è incerto. Questoè oggi, in Cina, il dissenso. Una sconfinata zona grigia, invisibile e non rappresentabile, che inghiotte nel silenzio migliaia di persone. All’improvviso scompaiono. Nessuno può dimostrare chi le sequestri. Non si sa dove siano, fino a quando. Qualcuno, dopo anni, riemerge dal buio dello Stato. È un altro, invecchiato. Sussurra di essere stato torturato, sparisce di nuovo. Non ci sono tombe. Viene da dubitare che qui si possa in realtà morire, per un’idea. Perché la vita, nell’altra Cina presentabile, continua come nulla fosse: cantieri, shopping, Borse, industrie, successo, promesse di felicità, record. Gli impresentabili, in Occidente, li consideriamo dissidenti. In Oriente li definiscono traditori. La maggioranza dei cinesi non sa che esistono. La minoranza è indifferente. Ignoranza ed incertezza si trasformano in dubbio: il dissenso cinese esiste, o è il parto politico della montante ostilità straniera contro Pechino? Questa sospensione, che annulla il presente raddoppiandolo, è la forza del potere. I giorni sono passati e la felicità per la scelta di Oslo si è spenta in una paura nuova. Che il Nobel sia stato un premio alla memoria del dissenso cinese, la lapide mai deposta in piazza Tienanmen. La parola fine. Oppure l’ultima fiamma, fatta divampare per riaccendere il rifiuto di vivere prigionieri della patria. Un seme conservato per il futuro, non un fiore che oggi può sbocciare.