Quei giorni di “Carta 08” quando il dubbio spaventò il Regime

di Federico Rampini

ERA il 10 dicembre 2008, lo choc della novità a Pechino fece sperare che poteva aprirsi un’altra Tienanmen: stavolta una transizione pacifica, in una Cina più ricca, più moderna, matura per la democrazia. Era il giorno del sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. Ricordo l’effetto-bomba che ebbe l’apparizione in simultanea su diversi siti Internet cinesi dell’appello di Carta 08, rimasto visibile per diversi giorni prima che intervenisse la censura.

La casa-simbolo circondata dagli agenti. La morsa di Pechino: decine di fermi, tv e web oscurati

di Marco Del Corona

Pechino – Erano davanti al caseggiato dove la moglie di Liu Xiaobao vive senza di lui, mescolati agli agenti in borghese. Gli amici di Liu si guardano in giro. Avevano firmato Charta 08, alcuni la pensano come lui e nelle università provano, con prudenza, a lasciarlo capire. Altri si sono ritrovati alla spicciolata in sale da tè, per festeggiare, il passaparola – telefonate veloci, sms, Twitter – indirizzava poi a una celebrazione con numeri pirotecnici, nei sobborghi. “Ci arresterebbero legittimamente, niente fuochi d’artificio in città”. Location provocatoria, dalle parti della sede della Scuola centrale del Partito comunista. E invece no. Alle 9, un’ora prima dell’appuntamento, tutto rimandato. “Ne hanno fermati almeno due”, diceva nella notte al Corriere uno dei partecipanti mancati, mentr l’agenzia di stampa Efe citava l’avvocato Teng Biao: “Una ventina di arresti”. Anche se leggi e nuove direttive spingono per prassi giudiziarie e di polizia meno violente e arbitrarie, chi entra in rotta di collisione col potere sa di doversi aspettare la visita notturna, gli oggetti confiscati, il “venga con noi” (e magari si prepara a sparire per mesi, come l’avvocato Gao Zhisheng, ricomparso dopo un anno in un monastero e poi scivolato ancora nell’ombra).

La macchina perfetta della censura cinese

di GIAMPAOLO VISETTI

(La Repubblica, 11 maggio 2010)

PECHINO – Non possiedo la chiave della mia casa di Pechino. Gentili sorveglianti, giorno e notte, aprono e chiudono l’ingresso della vecchia dimora cinese dove vivo e lavoro. Controllano tutto, per la mia sicurezza. Se voglio andare a dormire, o incontrare qualcuno, devo prima suonare il loro campanello.
Nemmeno l’uscita secondaria dell’ufficio, attraverso telefono e computer, può essere usata liberamente. Le conversazioni sono registrate e una voce cinese spesso suggerisce cautele che non sono in grado di comprendere. La posta elettronica viene filtrata da un esercito di ingegneri del governo. Identificano le persone che mi contattano e, come gesto di riguardo, glielo comunicano.